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Su city

TUTTO QUELLO CHE HO DA DIRE SU CITY

Intanto, il titolo. Il mio ultimo libro l’ho intitolato City. Mi rendo conto che non è una grande idea per uno che, il libro precedente, l’ha intitolato Seta. Immagino che adesso mi toccherà scrivere Sete (pensavo alla storia di una cittadina, nell’Idaho, dove una mattina tutti si svegliano e il fiume si è seccato, la Coca Cola è finita, i radiatori delle macchine sono vuoti, i bambini piangono senza lacrime, le vaschette dei cessi sono  a secco e così via. Fatti i conti, l’unica cosa che rimane, liquida e bevibile, in tutta la città, è roba alcoolica. E tutti lì, con una sete pazzesca. Il finale però non mi è venuto ancora in mente). Insomma, non è stata una grande idea. Però ci tenevo, a City, perché dice cosa questo libro è sempre stato, nella mia testa. Una città. Non una città precisa. L’impronta di una città qualsiasi, piuttosto. Il suo scheletro. Pensavo alle storie che avevo in mente come a dei quartieri. E immaginavo personaggi che erano strade, e alle volte iniziavano e morivano in un quartiere, altre attraversavano la città intera, infilzando quartieri e mondi che non c’entravano niente uno con l’altro e che pure erano la stessa città. City.

Pensavo a quando vai in una città, e poi quando torni ti chiedono se l’hai vista, quella città, e tu dici di sì, ma è evidente che non l’hai vista, veramente, ne hai viste porzioni irregolari e casuali, ma dici che sì, l’hai vista. City. Volevo scrivere un libro che si muovesse come uno che si perde in una città. Poi, tornato a casa, gli chiedevano cosa aveva visto. Ho visto City.
L’ho scritto - il libro - e poi l’ho intitolato City. Mi sembrava la cosa giusta da fare. 
I personaggi - le strade - sono tanti. C’è un barbiere che il giovedì taglia i capelli gratis, uno che è un gigante, un altro che è muto. C’è un ragazzino che si chiama Gould, e una ragazza che si chiama Shatzy Shell (niente a che vedere con quello della benzina). Ci sono dei professori, della gente che gioca a calcio, un bambino nero che tira a canestro e ci becca sempre, e c’è anche un generale dell’esercito. Gente. Strade. Si prendono le strade e si va. 
Per la prima volta, ho fatto questa cosa strana di raccontare storie che accadono ai giorni nostri, e non in qualche immaginario passato. Me l’ero promesso. Così l’ho fatto. Mi son messo di impegno: per dire: il libro inizia con una telefonata. Roba moderna.

Ci sono anche televisori, automobili, pullman, e, a un certo punto, una roulotte. Volevo anche mettere uno che mandava un fax, ma non mi è riuscito. La prossima volta. Comunque, dato che i vizi sono difficili da abbandonare, in City ci sono anche due quartieri, piuttosto grandi, spostati un po’ indietro nel tempo. C’è una storia di boxe, e c’è un western. Già. Il western è una cosa a cui pensavo da anni. Mi chiedevo se era possibile scrivere un western, nel senso di farne un libro e non un film. Stavo sempre lì a immaginarmi come diavolo uno poteva fare a scrivere la sparatoria finale. Scriverla bene, voglio dire, che proprio te la sentivi addosso, e te la bevevi tutta in apnea. Prima o poi dovevo provarci. L’ho fatto, e mi son divertito molto. Se non avessi da scrivere Sete, credo che non scriverei altro che western, adesso. Quanto alla boxe, quello è un mondo pazzesco, bellissimo. Se solo sei uno che scrive, non puoi veramente guardarlo senza sentirti salire una voglia bestiale di provare a scrivere quello che stai guardando. Hai un bel dirti che l’ha già fatto Jack London. Prima o poi ci caschi. Meglio prima, mi son detto. E anche lì mi son divertito molto. Faticoso, ma sai che giostra, per la fantasìa.

Ancora una cosa vorrei dire. Dato che uno dei personaggi (il ragazzino che si chiama Gould) va all’Università, ogni tanto, in City, compaiono dei professori che, secondo una certa logica, fanno lezione. Ce n’è uno che si chiama Mondrian Kilroy. E’ quello che mi piace di più. E’ lui che, a un certo punto, si mette a scrivere un Saggio, e come argomento sceglie: l’onestà intellettuale. Io ci sto spesso a pensare, a quella faccenda, a cosa significhi essere onesti se sei un intellettuale. E’ una storia complicata. Non sono mai riuscito a capirci molto. Però so che tutto passa da lì, che è lì che si decide quanto facciamo schifo, o quanto, invece, riusciamo a essere uomini giusti. Così ho preso Mondrian Kilroy e gli ho fatto scrivere quel Saggio: mi sembrava un tipo abbastanza ingenuo, e pulito, per poterlo fare. A leggerlo sembra una denuncia dei vizi altrui, ma non è solo quello: è anche un’autodenuncia, e un modo di guardarmi allo specchio. Non è che quello che si vede sia una meraviglia. Ma chiudere gli occhi, quello non mi va di farlo. Così quelle pagine le ho scritte e poi non le ho tolte.

Il prof. Mondrian Kilroy ci ha messo una breve nota, alla fine. Dice: “Un’altra vita, saremo onesti. Saremo capaci di tacere”. Non ho ancora capito bene in che modo, ma essere capaci di silenzio è una cosa che c’entra molto con l’essere onesti, se fai un mestiere come il mio. Forse perfino la capacità di essere assenti. Così, se solo vi capiterà di leggerle, quelle pagine, potrete forse capire perché tutto quello che avevo da dire, su City, l’ho scritto qui, e da adesso me ne starò in silenzio. Già con gli altri libri mi è sempre sembrata una cosa vagamente disonesta parlare in pubblico di ciò che avevo scritto. Con questo, proprio non mi riuscirebbe di farlo. Il prof. Mondrian Kilroy non me lo perdonerebbe mai. Per cui niente interviste o presentazioni o dibattiti. Giusto queste righe, posate in questo posto che quasi non esiste - dedicate a chi le troverà. 
Quanto a sparire del tutto, l’ho detto, al prof. Mondrian Kilroy: non sono abbastanza onesto - o forte - per farlo. Mi spiace. 
Un’altra volta, magari. 
A.B.

 
Il prologo dalla sezione in italiano
 
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