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L'OFFICINA DEL RACCONTO 2000

"La parola e la scrittura: smalto sul nulla o trasparenza di un incontro?"

CMC  Milano, 20 marzo 2000


Artificialità 

Giappone

La segnaletica delle cose

Le regole del gioco

Libri che nascono da libri

Comac McCarthy

Esattezza

CMC Milano, 20 marzo 2000

L'OFFICINA DEL RACCONTO 2000

"La parola e la scrittura: smalto sul nulla o trasparenza di un incontro?"

Intervengono: Luca Doninelli e Alessandro Baricco.

DONINELLI. Buonasera. Quest’anno il tema dell’Officina del Racconto è riassunto nel titolo di questa serata; riuscire a parlare di questo sarà arduo, speriamo di riuscirci, perché noi siamo scrittori e non teorici.

Sono contentissimo di incontrare Alessandro Baricco, perché ci sono dei suoi libri che mi piacciono molto e perché fin da quando lessi Castelli di rabbia, che è il libro con cui ha esordito, mi sono accorto che non solo c’era una qualità straordinaria dell’invenzione letteraria, ma esisteva una sintassi dell’invenzione, cioè questo scrittore non diceva quello che gli saltava in mente, ma faceva qualcosa, c’era un pensiero, delle idee, una testa che funzionava a pieno regime, in quel libro straordinario.

Quando leggo un libro e parlo di me come lettore, la domanda che mi viene spontanea è: di che si tratta? Ora, mi accorgo che pochi scrittori sanno rispondere con il loro libro a questa domanda: c’è chi parla dei suoi ricordi, chi descrive la sua città, chi parla di sua nonna…invece Alessandro nei suoi libri è uno che dice di che si tratta. C’è un motivo supplementare per cui desideravo incontrarlo, che secondo me Alessandro ha svolto una metafora completa del mondo in cui viviamo, della nostra vita, cioè non ci ha dato solo dei flash, ma ha detto delle cose semplici che, nella loro semplicità, rivelano una complessità organica.

La metafora più nota, credo, di Alessandro è quella di quest’individuo che nasce su una nave che ha già lasciato gli ormeggi, quindi quando la terra ferma è stata dimenticata, e suona mentre la nave viaggia sull’oceano, oceano che potete immaginare voi quante cose è: altre volte, in un bellissimo articolo che lui scrisse, invece di parlare dell’oceano parlava del "guano", che forse vuol dire della merda, e del fatto che c’è uno splendore nell’arte e anche un dolore, che è quello di far dimenticare una cosa che comunque c’è e che sappiamo tutti che c’è. Questa dolorosità è come il sapore di fondo, il retrogusto che mi ha sempre accompagnato nella lettura dei suoi libri, che poi sono anche divertenti, dire pirotecnici forse è sbagliato, non si tratta di accensioni con dei fuochi o dei colori cangianti, si tratta di qualcosa di più. Volevo che tu Alessandro ci raccontassi come è nata questa immagine, e poi ti chiederò da dove ti è nata l’idea di scrivere, e il fatto che hai fondato una scuola.

 

BARICCO. Anch’io sono contento di incontrare lui, non è che non ci incontriamo mai, ci siamo già visti altre volte nella vita, ma siamo talmente diversi che ci è impossibile non trattare con rispetto i lavori che facciamo.

Siamo completamente uno da una parte e uno dall’altra del pianeta dello scrivere: questo forse ci consente di capirci reciprocamente, e voglio ringraziarlo per avermi portato qui e schiodato dalla mia città dalla quale mi muovo molto ma non per andare in pubblico, di solito; ma sono contento di essere qui con voi. Dunque, Novecento è nato perché avevo un amico che faceva l’attore, Eugenio Allegri, e un regista di cui amavo i lavori, che si chiama Gabriele Vacis. Tutti e tre vivevamo a Torino, ma ci incrociavamo abbastanza poco; l’attore ad un certo punto si è messo in testa di riuscire a farci lavorare assieme, e tanto ha fatto finché effettivamente siamo finiti intorno ad un tavolo e abbiamo pensato di fare qualcosa.

 

La forma del monologo nasce dal fatto che è appunto studiata per questo attore. Così io ho passato un po’ di tempo a pensare, ho pensato alle storie che avevo in testa da un po’ di tempo, e alla fine ricordo di essermi trovato con loro due nella casa tristissima di campagna di questo regista Vacis, che è una persona tristissima che vive in un posto tristissimo: lui vive proprio in uno dei posti più brutti del pianeta, pazzesco, si è preso una villa in campagna in uno dei posti più brutti…e ci ha invitato in campagna. In questo clima di tristezza assoluta, mentre Vacis cucinava una bistecca, io ho raccontato le due storie che avevo in mente. Una era la storia di un pianista da transatlantico degli anni Venti, e la storia in quel momento era semplicemente pensare che quest’uomo fosse nato, in qualche modo che non sapevo ancora, su questa nave e non ne fosse mai sceso: fine.

L’altra storia, che in quel momento mi sembrava più interessante, era la storia di un uomo che nella vita, ad un certo punto sopraffatto dall’abbondanza di desideri con cui si svegliava alla mattina, decide che c’è un’unica via di salvezza possibile, che è quella di eliminare ad uno ad uno, metodicamente, geometricamente, i desideri, e conservarne tre per la sua vecchiaia e uno solo per gli ultimi giorni: fine. Di questa storia numero due sapevo solo un particolare, cioè quale sarebbe stato il desiderio che lui si tiene per ultimo nella vita, ed era un certo colpo di biliardo molto difficile, fare questo colpo di biliardo; poi via via a scendere escludeva tutti gli altri. Così ho raccontato queste due storie ad Allegri e Vacis.

Noi dalle nostre parti non siamo dei gran "simpaticoni" e neanche degli allegroni: Vacis ha detto: "Be’, non è male" e Allegri ha detto: "Mah, si potrebbe", e questo da noi vuol dire proprio che era bellissimo, e così io molto rinfuocato mi sono messo a scrivere, e in un tempo molto breve per me, tre mesi, ho scritto Novecento.

La storia usata è la prima, un uomo che nasce su una nave e non scende mai, un uomo che suona il pianoforte su una nave; ma se voi andate a vedere nel testo, in realtà trovate la seconda, nel finale, attaccata alla prima, e questa in realtà è una cosa che poi ripensandoci mi è sembrata un errore. Abbiamo anche pensato di escluderla, di togliere questa ultima parte, in cui effettivamente Novecento per sopportare il ritorno sulla nave applica questa tecnica di neutralizzazione progressiva dei suoi desideri, lui dice: "Incanto i desideri", e ne incanta uno ad uno. Questa cosa mi sembrava un po’ appiccicata alla fine, perché di fatto era un’altra storia, ecco vedete come poi nell’officina si mettono i due pezzi insieme. In realtà l’abbiamo tenuta perché Allegri, l’attore, continua a dire che quello è il momento in cui lui sente di più il pubblico addosso, uncinato a quello che lui fa, e quindi non l’ha mai voluta togliere. Ad esempio nel film, chiacchierando con Tornatore in una delle due o tre volte che abbiamo parlato e poi lui ha iniziato a lavorare, io non ho lavorato con lui, però per capire cosa voleva fare prima di vendergli tutto; nel film, dicevo, - il cinema è più sintetico, più pulito, più asciutto – è venuto fuori che questa parte sarebbe stata smembrata dal corpo del film e della storia.

 

Quindi la storia nasce così. A me piaceva molto il mondo dei transatlantici, prima ancora di Titanic, mi attirava molto questo insieme di lusso e povertà, e poi questo non-luogo: Novecento è una storia che accade in un non-luogo, perché non c’è un posto dov’è collocata la storia di Novecento, non sai nemmeno a che nazione appartiene quel punto di acqua in cui lui a un certo punto decide una cosa, o fa il duello. Mi piaceva molto questo pendolo, che è una mia idea ossessiva, anche Seta è costruito su una idea di pendolo, di uno che viaggia in continuazione avanti e indietro, anche in Castelli di rabbia c’è un uomo che va avanti e indietro continuamente, uno psicanalista se l’avessi saprebbe spiegare qual è il problema.

Però quello che voglio dire è che mi piaceva quella storia, mi piaceva immaginare uno che suonava il pianoforte, mi piaceva molto immaginare uno che aveva sentito in vita sua solo la musica che si poteva sentire su una nave, e quindi che produceva poi lui una musica impossibile. Mentre lo scrivevo, mi piacque moltissimo immaginare il momento in cui lui mette il cappotto e inizia a scendere, quando decide di scendere e poi non ce la fa.

 

Non ho mai pensato, ecco, come diceva Luca, che questa è una metafora esatta, non ho mai pensato di fare una metafora di niente; mi piaceva molto questa storia e l’ho inseguita, quei tre mesi, per tutto il tempo che avevo, per trovare tutto quello che riuscivo di più bello, ma davvero mai ho pensato che fosse la metafora di qualcosa, o cercasse di spiegare, o fosse un messaggio. Come diceva John Wayne agli sceneggiatori: "Se avete messaggi da far arrivare all’umanità mandate dei telegrammi, per me per favore scrivete film".

E così per me è abbastanza vero, in quel momento pensavo a quello.

Poi mi ricordo di aver pensato quando c’è il finale, in cui Novecento spiega perché non è sceso, lì me lo chiesero "ma perché non è sceso?", e lì c’è naturalmente una specie di messaggio, una morale, appena accennata. Poi dopo, nel tempo, tu hai scritto una cosa e scopri nella faccia degli altri, in te (in quello che scrivono di te no), nelle persone che incontri, scopri che quello che hai fatto per la gente è la mappa di qualche cosa che loro conoscono, ma non è qualcosa che tu sai mentre la scrivi, almeno per me è così.

 

DONINELLI. Infatti, Alessandro, le metafore sono una cosa che accade, non è che siano cose che uno fa a tavolino o fa con l’intento di fare. Per i messaggi, è vero, si mandano i telegrammi, è diverso il modo. Siccome lui prima mi diceva che del mio libro La nuova era, lui lo leggeva a letto la sera, cosa che invidio abbastanza perché generalmente io a letto alla seconda pagina mi addormento proprio di sasso, per poi risvegliarmi dieci minuti dopo; lui mi diceva che per lui era inverosimile che uno scrivesse un libro così, invece evidentemente avendolo fatto…

 

BARICCO. Di preciso è che Barbara, mia moglie, che stava a letto con me, mi chiedeva: "Ma com’è ‘sto libro? Ma com’è ‘sto libro?" e io non riuscivo nemmeno a rispondere, continuavo a leggere e dicevo: "ma incredibile, ma incredibile": hai veramente un modo di scrivere che non so, mah!

 

DONINELLI. Ho spiegato più di una volta che essendomi trovato da MacDonald con due belle ragazze, magari sono qui adesso, che erano sedute al mio tavolo, e una aveva un livido qui e si sono messe a parlare del livido, poi hanno parlato di problemi di lavoro, e questa spiegava che era il suo ragazzo che l’aveva picchiata perché il suo ragazzo la picchiava sempre, cioè quando si arrabbiava questo la picchiava; non solo, ma la tradiva regolarmente con tutte quelle con cui lui voleva tradirla. E l’amica le diceva: "Ma tu stai con uno così? Mollalo", e questa le ha risposto: "Ma io non mi preoccupo affatto di questo, perché sul mio oroscopo c’era già scritto tutto, e oltretutto c’era anche scritto che dopo sarà lui a subire per causa mia, quindi sto tranquilla". Tu capisci probabilmente che sono uscito così scioccato…

 

BARICCO. …che hai scritto un libro!

 

DONINELLI. Sì, non ho dormito una notte perché non riuscivo a capacitarmi di questa cosa qui, detta da persone assolutamente normali che fino al momento prima avevano discusso di problemi di lavoro con notevole cognizione di causa. Non so se questo ti può spiegare poi l’incredibile di dopo, ecco il prima è questo.

 

BARICCO. Il MacDonald spiega molte cose.

 

DONINELLI. Un’altra domanda che volevo farti è una cosa che ho individuato bene in City, ma poi andando a rivedere Oceano mare è una cosa che è una questione tua. La riassumerei in due osservazioni. Chi ha letto City ha presente la scena del tacco e quello che ne viene, che è un piccolo capolavoro di arte narrativa, è soprattutto la narrazione di ciò che i narratori non narrano mai, cioè il processo creativo. Tutti gli scrittori fanno questa cosa ma non la dicono, dicono il risultato. Mi colpiva il fatto che tu invece incorniciavi la storia esibendo anche l’artificio, la parola è brutta ma io la intendo in un senso bello, il processo creativo. L’altra cosa che mi colpiva, legata a questo fatto di far vedere - parlavo prima di un pittore che trae i suoi quadri dalle fotografie ma in modo da dire "guardate che è una fotografia"- è quella che si vede in quella specie di mega store, in cui c’è la ricostruzione di tutti gli ambienti, dove la ragazzina si mette a piangere…

 

BARICCO. Il salone della casa ideale.

 

DONINELLI. Ecco, lì io mi sono accorto di un punto che ti caratterizza come scrittore, che si potrebbe riassumere nella frase di Oscar Wilde "Non c’è nulla di più artificiale della naturalezza", e lì il moto spontaneo avviene dentro una costruzione, quindi il massimo della spontaneità coincide con il massimo della artificialità. Mi è sembrato che questa fosse una buona chiave di lettura per i tuoi libri.

 

BARICCO. E bravo, e bravo…sì questo è il punto, e lui lo capisce, è questo che mi fa incazzare, - con i libri che scrive, e questo non esiste -, lui lo capisce; è una cosa che per esempio mi è impossibile far capire ai critici, non che sia particolarmente utile, però non lo vogliono capire. Da quando ho iniziato a scrivere libri e trovo nelle recensioni frasi come "scrive troppo bene", oppure "questa prova di bravura (un po’ dispregiativo) macchiata dalla consapevolezza dell’autore di essere così bravo": come se uno dovesse essere bravo ma senza saperlo, se no se lo sa…Allora, in realtà ogni tanto penso che questo sia il cuore delle cose, ma è un po’ complicato… vogliamo affrontare questo tema?

 

DONINELLI. Sì.

 

BARICCO. Sì. Noi che scriviamo libri, in particolare, abbiamo questo problema oggi: come riuscire a dire ancora qualcosa di autentico. Siamo circondati da narrazioni straordinarie, moltissimi raccontano molto bene, anche in generi di narrazione di serie b, oggi probabilmente significativi tanto quanto il nostro. Allora, cosa resta come nostro compito, come nostro privilegio? Forse, non fosse altro che per eredità, il compito di trovarci più vicino possibile all’autenticità. Allora tutto sommato, anche se togliete tutti gli steccati tra arte di serie b, arte di serie a, il fumetto ha la stessa dignità della Recerche, però forse, dovendo conservare qualche cosa, il libro ha un suo tempo, una sua forma di DNA, di cultura ereditata, anche di intelligenza e di sapere ereditato, che potrebbe dargli qualche chance in più nel provare a raccontare qualcosa che sia prossimo a ciò che è autentico. Il problema allora è: cosa è autentico oggi? Questo è il vero problema.

 

Ogni tanto per cercare di spiegarmi su questa cosa complessa uso questo esempio giapponese (uno che va in Giappone si chiede davvero che cosa è autentico, perché sei circondato solo da repliche): tu vai al ristorante e vedi esposte in vetrina le copie dei piatti che tu mangerai fatte con la cera, che sono un’arte particolare che raggiunge livelli di virtuosismo eccelsi, per cui tu vedi degli spaghetti all’amatriciana perfetti, manca solo che fumino, alcuni fumano anche, perfetti. Entri e dici: "vorrei quelli" e indichi, oppure leggi il menù e ordini, e ti arriva un piatto di spaghetti veri. Però sono un po’ meno colorati, sono un po’ meno, non c’è tanta pancetta quanta là; allora chiami il cameriere e ti trovi a sostenere una discussione in cui dici "ma scusi questo non è vero, io voglio quello là" e stai parlando di una roba di cera, davanti a te hai una cosa vera e dici che non ti va perché la volevi uguale a quella là, quella là e di cera, questa è vera e quella è falsa, ma in quel momento l’autenticità è quella là, perché tu sei entrato in quel ristorante in virtù di quel piatto di pasta. Allora non importa poi che arrivi uno, il critico, il tuo parroco a dirti "ma come, quella cosa là è fatta di cera, si vede il trucco se vai vicino e la tocchi è fredda, e questa è vera" non è un valore che basta, dipende, magari dieci anni fa, in assoluto, o nei libri di scuola, ma adesso, qui, per me che sono entrato per mangiare quel piatto di spaghetti all’amatriciana, cos’è che è l’autenticità? Quello che c’è in vetrina, e non m’importa che sia inorganico, non m’importa. Proviamo a mettere questa micro-esperienza insieme a un'altra, se io a bruciapelo vi dico: "Avete dieci secondi, un minuto per spiegare a un marziano che arriva qui che cos’è la nostalgia", quanti di noi ricorrerebbero a una scena di un film, a un pezzo di Topolino, una poesia e quanti di noi ricorrerebbero alla propria esperienza personale. Dovendo fare tutto in un minuto alla fine tu dici, senti questa storia…,e gli racconti un film o che ne so. Perché non usi ciò che è vero, quello che ti è accaduto, perché usi l’artefatto, una storia confezionata da un altro.

 

Perché io mi riscopro a trent’anni, quando ho iniziato a scrivere ma anche oggi a quarantadue a vedere in me e in quelli che sono intorno a me che la segnaletica delle cose: la felicità, la paura, è una segnaletica che è inchiodata per utilità nostra su una scena di un film, quella storia là, un pezzo dell’Iliade, film hollywoodiani, un film di Sergio Leone, un western artificio puro… Ora, come mai noi andiamo a cercare lontano da ciò che è immediatamente vero, perché andiamo a cercare in pezzi di prodotti artefatti qualche cosa che ci riporta al cuore delle cose? Allora lì uno può assumere la posizione che vuole, io mi accorgo, in ogni cosa faccio, di stringere il cuore di una cosa che mi è accaduta di vivere, di incrociare come vera, di cercare di restituirla, di renderla percepibile anche ad altri. Mi sembra che il modo più onesto di farlo sia prenderla alle spalle, attraverso qualcosa di apertamente artificiale.

Se io ho imparato cos’è la nostalgia della felicità di quando eri giovane, lo ho imparato dalla mia vita però alla fine se devo restituirlo alla mia fidanzata o alla mia famiglia potendo io li faccio sentire dove sono i bei momenti, Mozart, ma non perché io sono snob, perché veramente c’è, è lì e non c’è niente di più artificiale di uno che al posto di parlare canta, con una voce che nessuno di noi ha, all’interno di una storia costruita secondo me su una logica delirante, eppure lì tu hai precisamente consegnato te per sempre, hai questa concezione: una volta si era felici ora tutto in vacca. Ci credo come dicevo all’inizio nella parte che citava lui Shatzy lo mostrava nei cartoni animati quando si rivedeva nella casa dei topini: il cucchiaio il quadrettino alle pareti i lettini fatti con la scatola di fiammiferi; vedi questa cosa e tu hai l’esatta sensazione che quello è il tuo posto, che quella sarebbe la tua patria la tua terra, eppure era un cartone animato. Questo è autobiografico, io mi sono sempre commosso a vedere l’interno della casa dei topini dei cartoni animati è ho sempre pensato che la felicità fosse lì. Così è per me così quando scrivo delle storie non ho paura di allontanarmi da ciò che è direttamente reale, che è direttamente naturale, non credo che l’autentico sia lì; e allora mi sembra pulito non fare finta. Per cui nei libri puoi trovare i meccanismi, l’enunciazione di quello che stai facendo.

E’ un po’ come girare per New York e ogni tanto la municipalità ti dà le mappe e tu non capisci niente sei solo meravigliato ma a un certo punto vedi la freccia: "voi siete qui", poi riparti e ti riperdi completamente; non ti stanno cercando di illudere quello che è il piano complessivo te lo concedono dopo che tu ti perdi. Riassumendo credo che l’esperienza dell’autenticità oggi sia un ritornare al cuore delle cose, alla naturalità delle cose solo per poche anime belle che io non conosco nemmeno più; ma per la maggior parte di noi l’esperienza dell’autenticità è una corsa in avanti verso una artificialità; come Le Nozze di Figaro nel ‘700, Madame Bovary Flaubert nell’800, una artificialità che magicamente riesce a recuperare il cuore delle cose. E quindi quando scrivo libri mi viene questo istinto e mi sembra anche molto naturale autentico infilare qua e là la denuncia di quello che succede. Mi piace molto fare un gioco di cui i lettori conoscono le regole; in effetti voi potete trovare, in quasi tutti i miei libri, le regole del gioco; voglio che tutti sappiano bene cosa si sta facendo, penso che sia il modo migliore per amarlo

 

DONINELLI: Mentre tu parlavi mi sono venute in mente molte cose riguardanti la mia vita, tra l’altro l’ultimo film fatto da un autore prima della sua morte, oggi abbastanza dimenticato ma secondo me era un grande: Cassavetes che fece "Loves dreames" nel quale al momento del dramma familiare che iniziava ad acquistare i toni dello strazio i due protagonisti iniziavano a cantare un pezzo d’opera. Io trovo che in questo tipo di lavoro che fai nel quale io prima ho parlato della parola strazio che è come un retrogusto che trovo nei tuoi libri, posso sbagliarmi, si capisce che la tua narrativa non nasce solo dalla narrativa e questo è un elemento evidentemente lirico nel senso operistico, come nell’opera lirica scritta sembra una scemenza cantata è qualche cosa di impressionante, che ti colpisce al cuore. Io parto sempre dalla letteratura e basta e mi sembra che invece ci sia una evidente figliolanza musicale nel tuo lavoro, hai scritto anche un libro sulla musica

 

BARICCO: Credo che questa sia una differenza di razza ad esempio fra lui e me perché lui giustamente dice io faccio libri che nascono dai libri, lui è uno ma moltissimi fanno così, c’è una tradizione letteraria che si ciba di se stessa e sviluppa una discendenza e questa è proprio una precisa cultura del libro che io rispetto molto ma che non è la mia, non sono l’unico siamo in diversi, sicuramente oggi c’è proprio questa divaricazione: fra una parte di scrittori che discendono direttamente dai libri e un'altra che sembrano il terminale di esperienze diverse e in qualche modo anche egualizzate. Io mi ricordo quando ho iniziato a scrivere che lo dicevo un po’ per vezzo perché quando si inizia a scrivere si fanno cose penose tra le quali per esempio le interviste o le foto e lì mi chiedevano quali erano i miei maestri e io facevo il furbo e rispondevo Topolino e mettevo insieme un po’ di roba e facevo un po’ il fesso; però è vero che c’è una razza di noi che scrive libri che sono una specie di filiazione, sicuramente letteraria di una costellazione di esperienze che non sono esclusivamente letterarie e se io stesso dovessi dire quali sono i miei avi vi faccio facilmente nomi di persone o azioni che non fanno parte della storia del libro, ad esempio sicuramente la musica; io ho odiato l’opera fino a diciannove-venti anni poi l’ho amata molto, adesso sono indifferente, però negli anni che contano l’ho amata molto e mi è entrata dentro e lì c’è un coefficiente di artificialità altissimo messo insieme a un coefficiente di immediatezza straordinario: è tutto illogico, non dovrebbe funzionare, non dovrebbe succedere che ti commuovi quando una che pesa cento venti chili guardando uno di settantuno anni di dieci centimetri più basso di lei gli dice cose d’amore in una lingua senza senso, in rima, guardando un altro, cioè il direttore d’orchestra, non è possibile che tu ti commuovi e colleghi questo con la tua esperienza ma esiste e per me è esistito e io ho capito delle cose, o meglio mi hanno consegnato dei pezzi della mia terra in quel modo lì.

Il concetto è che una cosa del genere ti segna entra anche nelle pieghe di quello che scrivi fino alle più piccole cose. Per me ad esempio significa molto la ritmica: io scrivo e leggo forte, a voce alta ed è per me un modo di sentire il tempo ma non è necessario perché Kafka non scriveva con nessun ritmo particolare ma per me è simultaneo scrivere una frase e sentirne il respiro e lì è per l’esperienza della musica, però anche come giocava Mcenroe al di là di stupire di fare il fesso è abbastanza vero lui come altri nello sport che è un mondo che quando sei giovane marchia molto il tuo immaginario; erano la fantasia contro la regola, l’educazione contro la disciplina, il mancino contro il destro, Mcenroe contro B’jorg e io perdevo la testa per Mcenroe, perché era matto, cattivo, inventava traiettorie impossibili e a trent’anni io volevo fare traiettorie impossibili.

Quello lo avevo visti fare anche da qualcuno che faceva cinema, anche da Mcenroe; o anche l’idea portante di topolino che è l’invenzione di un mondo Paperopoli e la collocazione di tutto lì dentro il mio libro e su quel filone diretto, forse me ne dovrei vergognare, non viene dai grandi come Proust da loro ho imparato cose meno fondamentali, come per esempio la leggerezza o altre cose tecniche, come quando vedi fare un gesto molto bene lo imiti e lo impari, però non è così importante come aver visto effettivamente giocare Mcenroe o essere cresciuto a Topolini o l’idea di dialogo che c’è nei film di Sergio Leone quello è un senso della tragedia che a me ha lasciato il segno; un gusto per la sinteticità assoluta, per la frase immobile.

Quando in "C’era una volta in America" DeNiro da gangster si tira in disparte per un po’ di tempo poi alla stazione incontra un vecchio amico, lui gobbo invecchiato con anche un cappello, e l’amico gli dice che hanno ucciso questo e quello e parla in continuazione e alla fine gli chiede: "e tu cosa hai fatto?" e De Niro risponde: " sono andato a letto presto". Cinque parole più un cappotto, un modo di stare e De Niro ti colpisce e questi non sono libri. Io vedo proprio questa divaricazione e non vedo il giudicarsi ma di scorgere le curiosità come se fossero proprio due linee.

 

DONINELLI: Ora mi chiami in causa, c’è un motivo per cui io scrivo nell’altro modo e di questo mi sono reso conto quando ho scritto un libro (a me i miei libri non piacciono molto) Talk Show che è un romanzo bizzarro che consiste nella narrazione di una puntata del Costanzo Show. Questo libro nacque dalla telefonata con un altro mio amico scrittore che mi disse che un vero scrittore epico dovrebbe raccontare una puntata del Maurizio Costanzo Show, tenerlo avvinto allo stesso modo con cui Nestore convinse gli Achei a non andarsene da Troia; cioè l’idea che in ogni istante si gioca il destino e che la letteratura è, forse perché più antica, per cui in cinque mila anni ha messo a punto qualche strumento per non mentire. Quello che Heminguay con finta brutalità dice "una prosa onesta sugli esseri umani" nell’introduzione dei suoi Quarantanove Racconti.

Io ho sempre trovato che quando entra in gioco l’io, con tutte le sue sfasature, la letteratura, forse perché è un linguaggio più vecchio, fosse alla fine una risorsa che mi faceva stare sul punto, come piace a me anche al costo di cadere nel ridicolo in cadute di stile, piuttosto che mentire, cosa che ho sempre trovato essere più difficile. Una volta ho scritto in un mio raccontino che se non fossi un uomo, allora ero più magro di adesso, mi sarebbe piaciuto essere un palo piantato per terra. E’ la mia immagine di letteratura, una cosa che sta lì e ci passa davanti di tutto.

 

Comunque capisco benissimo quello che dice lui sulla traiettorie impossibili, provo una nostalgia per questa cosa che fai tu.

 

Ora mi allaccio alla domanda successiva che ti volevo fare, una domanda sulla scuola. Tu ad un certo punto hai fondato una scuola e qui compare un’altra cosa che mi colpisce sulla quale hai già iniziato a rispondermi, cioè il fatto che tu ti occupi di comunicazione. Prima a tavola mi diceva "Abbiamo 40.42 anni, piantiamola di scrivere, uno ci mette 10 anni ad imparare a dire quello che ha da dire e poi è ora che chiuda". E su questo devo dire di essere abbastanza d’accordo con lui. Quello che volevo chiederti: tu hai fatto teatro, televisione, ti sei occupato di cinema cioè hai sperimentato i mezzi di comunicazione in tutta la loro ampiezza. Quale è il significato della parola comunicare, dato che ne hai fatto una scuola?

 

BARICCO: La parola comunicazione non mi piace molto, la scuola Holden che con altri ho fondato a Torino, in realtà si chiama " Scuola Holden: tecniche della narrazione". Narrazione è la parola su cui è costruita la scuola.

 

DONINELLI: Perché non ti piace?

 

BARICCO: Comunicazione? Ma, uno perché ho lavorato in pubblicità ed è stato un periodo difficile, brutto della mia vita. Lì era la comunicazione .Lì si comunicava tutto: comunicare il territorio, la politica era tutto una questione di comunicazione.

 

Poi c’è l’altra cosa che è collegata a quando noi eravamo giovani, cioè l’esigenza di comunicare. Vi trovate insieme e cosa fate? Ma, comunichiamo…Oppure scrivi poesie, perché? Quella cosa morettiana. Scrivo poesie perché ti voglio comunicare. E non mi ha mai entusiasmato. Poi io non ho mai avuto niente da comunicare, veramente. A me piaceva il fatto che io raccontassi una storia e qualcuno stesse ad ascoltare. Dopodiché io smettevo e iniziava lui. Questa cosa mi è sempre piaciuta. Fosse nella forma dei libri, della televisione. E’ sempre stata una esperienza forte della mia vita. Si può anche chiamare comunicazione in realtà, ma nella mia storia personale questa si è un po’ sporcata, così non la uso quasi mai. In rapporto alla scuola è stata scelta piuttosto la parola narrazione. Quale era la domanda?

 

DONINELLI: Invece a me la parola comunicazione piace molto perché non ho avuto i tuoi drammi. Capisco che ci sia questo insudiciamento del fatto del messaggio. Ma comunicare per me è semplicemente mettere in comune qualcosa, il fatto stesso che io parli e qualcuno ascolta, e magari qualcuno dei 50 che mi ascoltano senta veramente quello che dico e non un’altra cosa, ecco io intendevo questo per comunicazione. Tante volte uno dice una cosa e l’altro ne sente un’altra, però invece succede che questo, proprio perché ti impegni e costruisci la casa, come si chiamava?… "Il Salone della Casa Ideale", alla fine io devo dire che io credo di avere sentito esattamente , non perché ci ho ragionato su ma perché mi ha fatto male, il colpo di quella cosa lì. Quindi io la parola comunicazione la legavo a questa cosa qui.

 

La domanda è che ad un certo punto tu hai fatto una scuola. Siccome io non ci sono mai riuscito a prendere sul serio: "Perché non metti su’ una scuola di scrittura?" A me viene da ridere, non so’ neanche bene che cosa insegnare. Invece tu lo sai.

 

BARICCO: Abbiamo messo su una scuola che non è di scrittura ma di narrazione. L’idea è di formare in un paio d’anni persone giovani come narratori, dandogli una formazione di base dalla quale poi potranno prendere le strade più diverse: giornalisti, commediografi, politici ecc.. Cerchiamo di aumentare la consapevolezza di questi ragazzi su alcuni gesti fondamentali che sono alla base del narrare; la capacità di percepire, perché se non percepite niente non potrete raccontare niente; la capacità di vedere, vedere meglio. Vedere, ascoltare e organizzare sono le tre prime materie che noi facciamo. Poi insegniamo a raccontare con la voce che è la radice di qualsiasi narrazione (i primi che hanno raccontato lo hanno fatto con la voce), solo in seguito si parla di cinema e di teatro e si arriva anche ad una materia che da noi si chiama racconto e romanzo in cui cerchiamo di dare alcune indicazioni utili.

Perché il nostro mestiere non è qualcosa di magico che non si può insegnare, si può insegnare, soprattutto a ragazzi sotto i 30 anni si possono dare consigli utili. Scrivere è un po’ come correre: tutti lo fanno, è un gesto apparentemente molto semplice in realtà molto sofisticato, ma che tutti sanno fare; e qui sta il tratto di verità dell’obiezione all’insegnamento di tale attività. Ma se io vi chiedessi per quanto tempo nell’atto del correre entrambi i piedi sono sollevati da terra, voi sareste in imbarazzo.

 

Allora cosa puoi insegnare? Puoi insegnare cosa accade quando tu fai quel gesto, e puoi insegnare anche a farlo un po’ meglio. Perché se decidi che vuoi guadagnarti il pane con il correre, ti viene insegnato persino come muovere le mani perché può determinare quel centesimo di secondo di differenza che passa fra il primo ed il secondo centometrista più veloce del mondo. Io non avrei mai tenuto un corso di scrittura creativa, ma dopo 5 anni di scuola di scrittura sono ancora più convinto che esista una matrice comune ai vari livelli di narrazione. E anche la materia racconto e romanzo che io personalmente non insegno perché non amo riflettere troppo su ciò che scrivo, ha una sua evidente utilità: i ragazzi che escono non scrivono tutti come Lucarelli o Veronesi o chi gli ha insegnato, ma capiscono meglio il loro stile personale. Io ho iniziato questa scuola in un periodo in cui mi guardavo attorno nel mondo della cultura e vedevo ovunque qualcosa di sporco. La televisione per esempio: c’è di mezzo tutta quella vanità, l’immagine pubblica, ed è difficile poi difendere le ragioni vere di quello che fai. In questo senso la scuola invece è un posto molto privato perché il pubblico è piccolissimo in cui si fa un gesto molto pulito e che è difficile sporcare: c’è uno più vecchio che sa delle cose e uno più giovane che vuole impararle. E allora la possibilità di aprire un posto in cui si facesse qualcosa di pulito a me e agli altri piaceva e l’abbiamo fatto.

 

DONINELLI: Uno più vecchio nel senso però di uno che è già passato in un posto dove gli altri devono ancora arrivare…

 

BARICCO: Sì, c’è un testimone che ti racconta pezzi di terra. I primi nostri allievi diplomati adesso cominciano a insegnare nella scuola, e succede che alcuni di questi siano più giovani di alcuni allievi. Ed è un processo abbastanza immediato, dopo dieci parole o te ne vai o rimani di fronte ad un’autorità riconosciuta.

 

DONINELLI: Vorrei farti una domanda che è un mio sfizio personale; tu non hai scritto o io non ho letto tuoi racconti brevi; io sono un grande amante di Carver, Flannery O’ Connor, dove si realizza qualcosa di strutturalmente diverso rispetto al romanzo. Ti è mai venuta questa tentazione, ha delle antipatie, delle ostilità verso questo genere?

 

BARICCO: Io ho scritto un solo racconto pubblicato su una rivista che a quei tempi nessuno conosceva quindi rimasto sconosciuto e non ho mai avuto l’istinto di scriverne altri perché per fare quello che a me interessa io ho bisogno di molto spazio, come uno che scrive opere liriche e non quartetti. Per me ha un significato enorme la costruzione dove vanno a finire le mie storie. E nel racconto breve la costruzione può essere giusto un’impronta. Per una giusta insicurezza a me servono 25 mosse, non 3, ho bisogno della partita a scacchi lunga. Solo così riesco a stanare il nemico! Quella storia l’avevo fatta per il teatro; storia di poche pagine, ma che lì poi diventava molto lunga.

 

DONINELLI: Come definizione di racconto io ho in mente un racconto preciso di Carver: " Menudo ". L’io narrante ha appena lasciato una donna che però è ancora convinta di avere con lui una comunione spirituale, sta con un’altra donna ma nel frattempo è diventato l’amante di una terza donna che abita davanti a casa sua, il cui marito ha scoperto la tresca e le ha dato una settimana di tempo per lasciare l’appartamento; lui si trova a non dormire la notte pensando a tutto questo. Non riuscendo a dormire si alza prestissimo e scende in giardino a falciare l’erba del prato, suo e del vicino.

Ad un certo punto esce dal portone vicino una donna ancora in vestaglia ed il marito, pronto per andare al lavoro con la valigetta che la bacia allontanandosi. Carmen a questo punto fa un’osservazione impressionante: "Ho guardato quell’uomo e quell’uomo è un uomo speciale, perché è uscito di casa all’ora giusta, fra sette o otto ore tornerà a casa, e soprattutto perché ha dormito tutta notte. Se questo è nell’ordine universale degli eventi è pari a zero, eppure è qualcosa." Questa sorta di cogliere per toglimento è il punto centrale. "L’eccezionale non sono io, io sono solo uno che non dorme di notte perché ha fatto dei guai" e infatti nei vari episodi che racconta combina sempre lo stesso guaio , perché non riesce a far altro e di colpo lui resta sorpreso di questo

 

BARICCO: Perché tu come altri pensate che uno sguardo sul mondo possa essere tanto più autentico quanto più è punitivo, selettivo per sottrazione .Uno dove deve essere nato e cresciuto per non avere un’idea giubilatoria della verità cioè uno perché si sbatte da matti e va verso tante traiettorie, allora sa cosa è vero, questa è un’idea giubilatoria della verità. Invece io sto fermo, immobile, mi passa davanti il mondo, questo è Carver. Il risultato finale di Carver è questa totale vietarsi tutte le iperbole della narrazione, nella fiducia piena che se tu stai immobile e scatti una foto a quello che in quel momento ti passa davanti ,se tu non ti lasci corrompere da nessuna libidine, piacere, desiderio, gioia, divertimento, se tu sei assolutamente integro, perfettamente immobile la foto è quella del mondo vero.

 

DONINELLI: Non trovo adeguata l’espressione "fiducia cieca". Non è una fiducia cieca, se io non mi diverto a scrivere, infatti tutti quelli che leggono i miei libri mi dicono: "Ma come sei autopunitivo, ecc." Ma li leggono sempre in poco tempo e dicono: "L’ho letto tutto d’un fiato". Questo vuol dire che riesco a tenere il lettore attaccato alla pagina e questo perché mi diverto io. A Franco Loi ho posto la questione dell’esattezza, cioè a me piace, non è un problema di fiducia cieca, forse sono un po’ un anarchico, i miei maestri hanno avuto tutti in qualche modo una matrice anarchica o anarcoide e quindi mi rimane. Ieri sono stato a vedere anzi a rivedere a teatro con mia figlia "Il rinoceronte" di Ionesco. A me questa resistenza di Beringè di fronte a tutti che diventano rinoceronti e lui invece resiste, è una cosa che mi commuove. A me piace riuscire a dire una parola che è quella. Per esempio, io posso dire questa mi sembra una bottiglia, toccandola direi che quasi certamente questa potrebbe essere una bottiglia, no l’espressione adeguata della mia esperienza è questa è un bottiglia.

 

BARICCO: E’ missione impossibile perché noi la parola esatta non l’abbiamo. Già quella bottiglia da là non sai come si vede.

 

DONINELLI: Non è vero. Quando Paolo Conte dice " c’è un po’ di vento abbaia la campagna, c’è la luna in fondo al blu" è di una esattezza assoluta. Questo è ciò che piace a me.

 

BARICCO: Perché i libri? Forse l’esattezza oggi è più delle forme di narrazione, è leggere

 

DONINELLI: Lo so. Ma a me è toccato questo, non l’ho scelto. Non ho avuto il tempo, ad un certo punto dovevo mettere insieme un disastro e ho cominciato a raccontare. Per cui è una domanda da un lato provocatoria dall’ altro a cui non so assolutamente rispondere. Mi piace la parola che è adeguata all’esperienza che faccio di una cosa e che quindi mi rende trasparente, evidente ciò che ho intuito. Questo è quello che mi piace, e che non riesco molto spesso a fare. Mentre mi piace di più leggere i tuoi libri, sono felice di dire che ti ho sempre ammirato, non ti ho mai invidiato perché non potrei farlo e visto che ci sono già i tuoi libri mi sento totalmente esentato dal doverli fare. Una volta hai scritto un articolo bellissimo su Cormac McCarthy, secondo me è il più grande scrittore vivente. Tu dicesti: "questo è proprio il mio contrario".

 

BARICCO: Dovete leggere Cormac McCarthy, assolutamente. C’è qualcosa di antico in lui.

Ad esempio quando dicevo la razza di quelli che scrivono libri come fedele, pulita, integralista derivazione dalla tradizione letteraria, allora lui, se proprio bisogna fare quel gesto, allora lui, che ha una forma di integralismo quasi mistico sulla scrittura e impone anche al lettore una certo rigore, a prima vista può sembrare anche ostico, pesante, ha dei tempi pazzeschi, però è tutto superabile, non è uno difficile. Quello che restituisce è fantastico, tecnicamente sono due o tre trovate sue , che poi è difficilissimo non copiare, quando hai letto non riesci a non farlo. Ad esempio in City c’è un pezzo che è proprio un omaggio a lui, c’è una parte western . Le storie di McCarthy che sembrano western sono ambientate negli anni quaranta in realtà, però alla fine sono cow-boys .

Tecnicamente c’è uno dei racconti western di City che è scritto alla Cormac McCarthy. E’ un godere fisico scrivere come lui. Ha un’idea del dialogo, per esempio, che è straordinaria, come lui usa questa che è una delle tessere di quello che noi scriviamo. Il dialogo è come se fosse ingoiato nella pancia della descrizione. Ad esempio lui dice "Billy" per dire entro nella stanza, "apri la porta", perché lui è un po’ maniacale in questa cosa di esattezza. Se tu decidi che dici che gesti fai, tutti: "si grattò un po’ la nuca, poi si avvicinò alla sedia, si sedette alla sedia, disse che era bello essere arrivato in quel posto, la vecchia lo guardò, disse che da tempo aspettava un ragazzo come lui", e va avanti così. Sono parole che sono come sedersi sulla sedia, diventano gesti, non sai più cosa è parola, cosa è gesto, è tutto uno stesso materiale in realtà. Di fronte a queste cose che io non tollero più: "e Marisa andò verso la televisione e spegnendola disse" –due punti, a capo, virgolette –"Come mai sei tornato tardi questa sera?" –a capo – "Giulio la guardò e, pensosamente", tornò in casa sua – punto. "Riuscì da camera sua, si avvicinò a Marisa ed esclamò" (c’è gente che usa ancora il verbo esclamare) - due punti, a capo – " Tutto mi sarei aspettato da te, tranne questo" – punto, a capo.

Chi può più sopportare questo dopo che ha letto McCarthy? Lui invece quando fa i dialoghi, quando li toglie dal corpo della narrazione va a capo, allora c’è proprio la frase, però toglie qualsiasi segno grafico, non ci sono virgolette, non c’è trattino, proprio per riuscire ad allontanare il meno possibile la voce dagli oggetti, dai colori, dagli odori, cioè è una cosa come le altre la voce.

Per cui voi leggete: "il paesaggio sfolgorava sulle colline…"- punto a capo – "lunga la giornata oggi, disse Billy". Non c’è nessun segno che ti faccia capire quando leggi " lunga la giornata", niente che ti faccia capire che è un dialogo, una voce, lo scopri dopo. Lui fa questo sempre, tutti i libri, sempre così, è uno che praticamente non ha mai cambiato, non c’è nessuna evoluzione: lui ha iniziato a scrivere in questo modo, continua a scrivere nello stesso modo storie, a volte durissime.

 

DONINELLI: Siccome abbiamo continuato a dire che c’è questa divergenza, ho notato che su questo punto siamo completamente d’accordo. Basta, mi hai tolto con la risposta l’ultima domanda che ti volevo fare e non mi interessa continuare a chiacchierare. Mi ha colpito quando hai parlato della scuola Holden, quello che hai detto sull’imparare a guardare, perché questo è proprio una cosa vera. Io mi ricordo che una volta avevo dato ripetizione a un ragazzino di seconda media, che non sapeva scrivere in italiano, non riusciva a fare i temi. Allora io l’avevo portato alla finestra e gli avevo detto: "Dimmi cosa vedi". C’erano tantissime cose: bambini che giocavano, macchine che passavano su una strada, la gente che chiacchierava, un negozio di fruttivendolo, e scene molto vivaci. Lui è stato lì un quarto d’ora in silenzio. "Dimmi cosa stai vedendo!"- "il palo della luce…".

 

DOMANDA: La questione dell’esattezza, Freud a parte, mi sembrava molto interessante. Io sono assolutamente profana agli argomenti, sono solo una curiosa, la ragione per cui sono qui è la curiosità. Mi sembrava che dalla descrizione del vostro lavorare, da dove esso provenga e dove vi porti, l’esattezza, anche nel senso poco nobile del termine, la parola esatta, è il risultato della descrizione del lavoro più di Baricco che di Doninelli, quindi volevo un chiarimento in merito (anche perché anch’io, in tutt’altro genere, nella scuola italiana, cerco di insegnare a scrivere). Mi interessa molto la questione del palo, la parola che io comunque non definirei "esatta", la parola che rende giustizia: l’unica parola che mi viene è "verità", anche se, viste le premesse, mi trovo un po’ a disagio ad usare queste parole che non vanno più di moda. La questione che avete tirato fuori sull’esattezza mi è poco chiara, perché mi sembra che, paradossalmente, nel modo di lavorare di Baricco, per quello che ha potuto descrivere ed è riuscito a comunicare, sia più il suo indirizzo di lavoro a portare lì che non il tuo.

 

DONINELLI: Probabilmente è vero.

 

DOMANDA: Cioè: la questione del palo fa pensare all’immobilismo, ma mi sembra più mosso il palo che non il resto. Essere come un palo è semplicemente questa visione punitiva della realtà istantanea: io non l’avevo colto in questo modo, perciò mi piacerebbe che anche l’esattezza venisse un po’ ricollocata in questo ragionamento.

 

DOMANDA: Nei romanzi del signor Baricco ci sono stati dei momenti in cui io ho sentito una verità, ma erano momenti di silenzio, non di parola: nei momenti in cui in City Gould riceve una palla e dicono: "palla!", e lui rimane immobile, io mi riconosco; nei momenti in cui Morny vede accadere qualcosa ed è paralizzato in un silenzio, e tutto accade, io mi ci ritrovo. In Novecento "Frann" è un momento di verità, ma anche nel modo in cui Baricco si esprime, questi sono i momenti più veri.

 

BARICCO: questo è un problema, bisogna rassegnarsi! Ma è bene che voi mordiate su questo, perché è l’unica cosa importante rispetto a tutto il resto: lo stile, l’eleganza, saper scrivere bene, saper scrivere male…

 

In realtà il problema che dà anche un senso al nostro mestiere è l’esattezza, o diciamo, la prossimità a ciò che ancora oggi possiamo chiamare autentico, che possiamo riconoscere come un cuore passabilmente essenziale delle cose. Questo è il significato del gesto che noi facciamo. Il problema è che l’esatta nozione di autenticità, di verità, ci è scappato dalle mani, non sappiamo esattamente cos’è l’esattezza. In quel bellissimo libro, e poi anche nel film, anch’esso bellissimo; "Quel che rimane del giorno", c’è questo maggiordomo che è l’immagine dell’esattezza, che passa sulla tavola imbandita a misurare la distanza tra le posate e il piatto col centimetro: mentre leggevo questo libro, che è scritto in una prosa apparentemente "da maggiordomo", con un’eleganza fantastica e un’esattezza - sembra- fantastica, pensavo: ecco ciò che esattamente noi non possiamo più fare, ciò che non ci compete, perché i piatti non sono fermi, le posate non sono ferme, il centimetro non è sempre uguale.

E’ inutile simulare che sia così, per cui quel libro, che pure io ho amato tanto, è uno dei libri più falsi, più menzogneri, più istigatori della menzogna che io abbia mai letto, eppure un bellissimo libro, fatto anche tecnicamente bene, però nocivo. Mentre quello che intuisco è che continui ad essere importante rimanere prossimi a quello che è autentico, anche nella vita quotidiana; non si può arrendersi all’idea che tutto è relativo: insomma, ci sarà qualcosa che sia che lo vedi da sotto, che da sopra, è lui. Altrimenti com’è che giri la tua vita? Bisogna salvare questa possibilità che ci sia qualcosa a cui ti puoi appoggiare.

Quando dicevo prima che tu arrivi sparato a trent’anni e inizi a scrivere, e dietro di te c’è tutto quello che hai imparato, e poi lo scrivi, magari nel giro di dieci anni riesci a scriverlo sempre meglio, ma sostanzialmente è da là che arrivi, il mio " da là che arrivo" è molto l’aver capito che in questo mondo, particolarmente spettacolare, sofisticato, ricco, lo sguardo esatto è lo sguardo picassiano, cioè lo sguardo di qui, ma contemporaneamente lo sguardo di là, e di là guardo socchiudendo un po’ gli occhi, e la somma di questo per un attimo coglie l’autenticità. Poi per il resto campo col ricordo di averla vista.

E’ giusta questa immagine che lui usa del palo, perché è esattamente quello che a me sembra che non sia più sufficiente: allora ad esempio, chi scrive con un punto di vista, cioè i classici, (la nostra storia letteraria nasce dai grandi narratori che hanno creato il punto di vista: la voce del narratore che racconta, è un punto: il narratore onnisciente guarda dal cielo e vede nella testa della gente ecc.). Una scrittura, un punto di vista, Madame Bovary: perfetto per un certo tipo di civiltà, per un certo tipo di paesaggio sentimentale, come un bisturi per tagliare: hai lo strumento giusto per un certo gesto. Ma oggi – questa è un’obiezione che potrei fare a te o a chi partecipa a questo tipo di tradizione- cosa puoi riuscire ad ottenere con un libro che ha un punto di vista e una scrittura? E’ come tirare giù il Duomo con un martello: può riuscire a uno, che per pura fortuna prende proprio la pietra che viene giù. Però è evidentemente sproporzionato. Come pensare veramente che si possano dire cose esatte, oppure cogliere dei momenti che conosciamo come veri?

Guardando ad esempio questa stanza da qui, e basta, e non simultaneamente da altri quattro punti di vista e con lo sguardo anche di un ubriaco, di un bambino e di un vecchio che non ne può più: se io sommo queste cose, se riesco a mettere tutte queste cose insieme, mi sembra che se c’è un nocciolo di autenticità in questa sala io posso vederlo. Nessuno di voi è in un punto che sia quello giusto. La posata non sta ferma, il piatto non sta fermo, è un bel misurare, ma lui si muove, ed è giusto che sia così. Allora questo mi sembra un po’ il compito destinale, mi ha messo a vivere in quella giungla lì e quindi io mi muovo così.

D’altra parte noi siamo una civiltà molto cinematografica, televisiva, quello è un linguaggio che costantemente salta: voi siete sempre lì a sposare lo sguardo di un altro che ha scelto per voi di stare qui, qui, qui…poi di colpo sei in una macchina: vorrà pure dir qualcosa. Mentre il datore di Flaubert era un uomo che quando faceva un’esperienza di tipo narrativo, stava seduto, c’era un palcoscenico e vedeva. E’ chiaro che poi Flaubert scriveva i libri in quel modo, perché quella era una civiltà che aveva quel tipo di sguardo, di tipo frontale: davanti, guardo; vado a teatro, vedo; leggo un libro, Madame Bovary.

Ma se io cresco al cinema, e apro un libro, mi dico:" ma sono tutti fermi?", ma non vedevo mai dietro. Oppure: "il ritmo è sempre lo stesso: e non potremmo andare un po’ qui, un po’ là, a destra della macchina, e contemporaneamente a teatro, nel letto di quelli lì, e nella stanza del giudice?". Perché no? Poi farle queste cose naturalmente è più difficile, però se volete la descrizione del campo di gioco io mi immagino quello lì. Però è vero che alla fine cerchiamo esattezza tutti quanti, proprio perché scriviamo libri, perché è da sempre una delle vocazioni della narrazione scritta, quindi, bene o male, per quanto la nostra filiazione sia più o meno stretta, cerchiamo quel privilegio e quel compito, più di uno che fa spot pubblicitari, certamente.

 

DONINELLI: Siamo sicuri che quella che tu chiami coscienza sia semplicemente una prigione e non un punto di apertura? E secondo, questo continuare a saltare da un punto di vista all’altro (perché è vero che questa è la velocità in cui ci troviamo noi immersi) non rischia di diventare nessuno di essi, di non operare nessuna metamorfosi in realtà, e quindi alla fine al posto di un punto di vista, sostituire tanti ..finti punti di vista? Corriamo anche questo rischio: il bisogno dell’autenticità, che abbiamo dentro sia io che te, corre questo rischio.

 

BARICCO: Certo che c’è, però io sono abbastanza consapevole, anche quando ho iniziato, che i casi erano due:…...

 

Per me era molto chiaro, sarebbe stato più semplice scrivere un libro con "..M.ritornò nella stanza fissando negli occhi Umberto e gli disse..due punti a capo virgolette.." sempre da quel punto di vista è una lingua non puoi sbagliare più di tanto, in altre cose si può sbagliare in modo veramente umiliante .Ti dirò, forse proprio il fatto che ci sia anche questo rischio di mezzo, mi rende anche la cosa più credibile .

 

DONINELLI: Qui ci lasciamo con questo punto di domanda, prima di tutto perché è anche vostro compito capire quello che c’è dietro le nostre parole perché ci siamo giocati abbastanza io e Alessandro stasera ciascuno nel suo ruolo lui di ospite io un po’ di anfitrione sta a voi a un certo punto trarre le conseguenze che credete.

 

Secondo me stasera abbiamo fatto l’esperienza di due affronti, di due approci diversi della letteratura ma che non è solo della letteratura perché in fondo abbiamo parlato della coscienza abbiamo parlato dell’io, del lavoro e anche del bisogno di divertirsi e di viver bene, cioè bene vuol dire nel modo più prossimo possibile a ciò che riconosciamo come autentico. Preferisco che ci lasciamo così e ringrazio Alessandro della sua gentilezza e della disponibilità a rischiare, non solo nel venir qui a Milano.

 
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