di Maria Teresa Di Pace
- Ce l'hai con me, figlio, perché ti ho lasciato troppo presto per scivolare nella morte, dimentica di te e dei tuoi brevi anni.
- Ce l'ho con te, madre, perché per scivolare nella morte mi hai lasciato di te scarni ricordi per i miei lunghi anni.
Le donne di casa, per consolarmi, dicevano che mi guardavi e proteggevi da un luogo del cielo. Ma quel luogo non c'era nel mio mondo bambino. Era un imbroglio o una fantasia delle donne; lo sapevo io, e il tuo sguardo lo cercavo nel mondo della mia vita senza te.
Mi hai guardato dal tuo ritratto nella cornice ovale appesa in salotto per tutto il tempo che c'è voluto a diventare uomo. Io venivo a cercarti in quel quadro sulla parete, per convincermi che eri bella e che magari ti somigliavo un po'. Meno di mio fratello, lo sapevo, ma forse un po' ti somigliavo.
Mi hai guardato crescere ma non c'eri.
Mi hai guardato con gli occhi della biscia che vedevo strisciare via, appena mi svegliavo, dopo avere dormito appoggiato al muro a secco dell'orto, all'ombra dell'ulivo vecchio. Non ti ho mai vista arrivare, neanche se facevo finta di dormire per ingannarti e sorprenderti. Me lo dicevano i vecchi che eri tu quella biscia che vegliava il mio sonno, madre.
Mi hai guardato dormire ma non c'eri.
Mi hai guardato con gli occhi del gatto che brillavano di notte su uno dei pilastri in muratura del cancello lungo la strada di casa. I ragazzi vedevano occhi malevoli di spettro e passavano di corsa davanti a quel cancello, ma io facevo lo spavaldo e una notte ho preso a sassate il fantasma che ha miagolato come un qualunque gatto e ho preso in giro gli altri fino a quando siamo diventati tutti vecchi. Ma io lo sapevo che eri tu, madre, quel gatto che aspettava il mio ritorno a casa.
Mi hai guardato rincasare la notte, ma non c'eri.
Sapevo che con gli occhi del tuo ritratto, e della biscia, e del gatto, mi guardavi, e in quegli occhi ti ho cercata ma non ti ho vista mai. Ce l'ho con te anche adesso che ti vedo, madre, di fronte a me, confusa ai rimpianti e ai vanti, ai canti e ai passanti della mia lunga vita senza te.
- Non l'ho fatto apposta, figlio, anche se per mia colpa ho lasciato te e quell'altro bambino più piccolo di te che di me non ha potuto avere ricordi; era un altro maschio, bello, più di te, e mio, più di te, perché a lui, e non a te, avevo dato il nome di mio padre.
Ora ti guardo e tu mi vedi, figlio, e ho di te e della mia breve vita scarni ricordi.
C'era un cancello davanti al quale passavo veloce facendomi il segno della croce perché in quel punto era stato ucciso un uomo, e c'era l'orto con l'ulivo vecchio e le bisce che si nascondevano tra le pietre del muro a secco.
Il mio salotto aveva un divano in damasco verde, e le pareti affrescate, e il pavimento con i mattoni che formavano disegni di fiori come un tappeto, ma lucido e freddo. C'erano degli specchi alle pareti, e c'era il soffitto dipinto con ghirlande di fiori e una ninfa della primavera al centro, col piedino nudo troppo piccolo rispetto alla sua mole, giunonica, come giunoniche eravamo noi, giovani donne di quel tempo passato. Ho scelto io i mobili e gli affreschi, per andare sposa, ma non ricordo più se mi erano piaciuti veramente e neanche se prendere marito fosse quello che volevo veramente. Non ho ricamato io il mio corredo di sposa; ho lasciato fare alle mie sorelle. Non mi piaceva ricamare e non desideravo essere madre. Sei nato tu ed è nato l'altro bambino che ho chiamato con il nome di mio padre. Quando me lo misero tra le braccia per la prima volta, di lui dissi: questo è Don Giovannino; e tu eri lì e a te, quel titolo, non lo avevo dato mai, figlio.
Non ho desiderato diventare madre e non volevo diventarlo un'altra volta. Non l'ho voluto, e per questo, e per i consigli maldestri delle comari, vi ho lasciati e sono scivolata nella morte, per mia colpa, ma senza volerlo veramente. Il figlio morto nel mio grembo mi ha uccisa e tu hai raccolto le foglie di limoni per il cuscino profumato che ha sorretto il mio capo nell'oblio. Mi hai guardata dormire, composta nel mio salotto col mio abito migliore e i fiori tra le mani come la ninfa della primavera che sorrideva sul soffitto. Nella cornice ovale appesa alla parete c'era un paesaggio campestre con il mare lontano sullo sfondo.
- Era sempre chiuso quel salotto, madre, per i lunghi anni del lutto. E il tuo ritratto nella cornice ovale prendeva luce solo quando si puliva la stanza. Io venivo a cercarti in quel quadro sulla parete, nei pomeriggi, quando il sole filtrava attraverso le persiane e il pulviscolo illuminato dai raggi obliqui ti avvolgeva di un velo danzante.
Poi è passato il tempo e altro tempo ancora, e la tua cornice ovale è diventata un oggetto come gli altri di quel salotto che, senza te, ha visto feste di natale e visite di parenti e fidanzamenti di sorelle che non erano figlie tue, ma dell'altra donna che nella casa che era stata tua aveva desiderato essere madre.
Vive ancora il tuo salotto, e nella cornice ovale c'è una stampa di un vaso azzurro con i fiori colorati, di quelle che piacciono tanto alla figlia a cui ho dato il tuo nome, madre. Sono sempre aperte le persiane e il sole del pomeriggio illumina la ninfa della primavera sul soffitto che si è fatta pallida, sbiadita dal tempo, ma che sorride ancora di un sorriso fresco.
Tu ed io siamo di fronte adesso, io vecchio e tu sempre ragazza; e la mia vita, come la tua, è già lontana.
L’Archivista si ritrovò il manoscritto tra le mani. Lo sfogliò, carezzò le pagine.
Finalmente toccava a lei di scrivere il suo capitolo sull’incontro con il Viaggiatore.
Aveva scelto una penna con inchiostro blu.
Il Viaggiatore era di fronte a lei, spavaldo. L’Archivista si sentiva in trappola, invece.
Nei suoi viaggi, per mesi, lui aveva incontrato tutti quelli ai quali aveva chiesto di scrivere sul libro prima di arrivare da lei. Li incontrava; li faceva scrivere; li guardava mentre scrivevano. Poi, al ritorno da ogni viaggio, trasformava i gesti, i suoni, gli odori di ogni incontro in un proprio racconto che li fissava in un ritratto fatto di parole.
L’Archivista adesso aveva davanti solo le parole di quelli che avevano scritto prima di lei, ferme sulle pagine del manoscritto. E quelle parole non ne volevano sapere di legarsi nella storia che sarebbe piaciuta a lei.
Aveva cercato i capi dei fili che le diverse grafie avevano tracciato sui fogli per potere annodarli insieme, come sapeva fare lei, ma quella era scrittura che si ribellava a una trama.
C’era un incipit: il Viaggiatore che portava via il libro dalle mani del Capitano. E c’era un finale: il libro che tornava tra le mani del Capitano.
Ma, come in ogni storia, o in ogni vita, tra quell’inizio e quella fine c’erano ansie e desideri, sfide e frustrazioni che accadevano e basta.
All’Archivista sarebbe piaciuto leggere la fiaba dell’attesa del Capitano, rimasto a bordo di una città affacciata sul vento, ad aspettare il ritorno del Viaggiatore spiando il mare che, davanti al suo sguardo blu notte, spruzzava parole che esplodevano moltiplicandosi ad ogni sosta del Viaggiatore in una delle locande che sceglieva. Le sarebbe piaciuto leggere che il Capitano non avrebbe trovato pace fino a che il libro non fosse tornato tra le sue mani. E che, solo allora, le particelle di mare, storie, e vento si sarebbero placate in un filo, come una collana, docili sulle pagine del libro, e lo sguardo del Capitano sarebbe tornato del colore delle perle.
Le sarebbe piaciuto, ma non c’era da leggere. C’era da scrivere.
L’Archivista però non si sarebbe arresa, e per questo le serviva un trucco che desse senso a tutti quei frammenti tra l’inizio e la fine e li trasformasse in un destino.
Lo stesso trucco che si usa nella vita: raccontarsela come se un senso ce l’avesse.
In fondo, lei era l’Archivista proprio perché i trucchi dei libri e della vita sapeva classificarli e disporli in bell’ordine sui loro scaffali.
Quello tra lei e il Viaggiatore era pur sempre il loro solito duello, e lei aveva deciso, per uscire dalla trappola, di giocare sporco, voltando la carta per incastrare lui tra i meccanismi del suo gioco: aveva deciso di scrivere il proprio capitolo sul manoscritto in foggia di racconto della storia stessa del manoscritto e dei ritratti degli incontri. Avrebbe ingarbugliato la matassa del Viaggiatore.
Le era sembrata una buona idea e si era sentita forte. Non sarebbe diventata un suo personaggio, lei, ma il suo autore.
Doveva solo cominciare a scrivere, e la trama sarebbe affiorata a disegnare mondi laddove, sul manoscritto, c’erano solo parole raminghe.
E allora, cosa aveva spinto il Viaggiatore a quell’avventura?
Doveva esserci stato un momento in cui la scelta era accaduta, e aveva trasformato un’idea nell’impellenza di un venerdì d'inverno con quelle frasi brevi tra lui e il Capitano: Ce l'hai? Si, ce l'ho.
Da quel momento qualcosa era cambiato nella sua vita, e il viaggio si era trasformato in racconto, e lui si era trasformato nel dio narrante di una storia che partiva da quella città a strapiombo sul mare, dove un giorno avrebbe restituito il libro al Capitano… se solo, da quella storia, fosse stato capace di uscire.
Perché certi libri ti catturano anche quando li leggi, ma quando li scrivi, anzi li plasmi dagli sguardi e dalle parole delle persone che incontri e che trasformi in personaggi, o sei un demone o sei fottuto.
La storia era cominciata nell’istante in cui il Viaggiatore aveva tracciato il ritratto dell’incontro col Capitano e del suo sguardo che, quando il Capitano scriveva, cambiava colore.
Da quel venerdì d’inverno la piazzetta dove si incontravano di solito era diventata “il luogo magico dove il Capitano si materializzava e scompariva”, e il libro era diventato “Il talismano che, come un qualsiasi avventuriero che si rispetti, lui aveva portato via dalla piazzetta magica”. Con quel talismano in tasca, era diventato il Viaggiatore e si era conquistato un posto da protagonista tra i nomi e i ruoli di quelli che trasformava in personaggi mentre li osservava scrivere.
Non era poco.
Grazie al potere del libro il Viaggiatore aveva sfidato, alla fine, anche l’Archivista, in quel bar all'incrocio con il caos, dopo averla lasciata ad aspettarlo qualche minuto di troppo, infreddolita dall’attesa sulla veranda, prima di consegnarle il libro.
Un duello.
Ma lui era armato, e con quell’arma aveva già affrontato la Bella, con la sua maglia fucsia dalla profonda scollatura e una collana d’argento con un piccolo ciondolo a forma di cuore. Bella, lei. Giacca nera e camicia anonima, lui. Ma lei era di fronte a lui e non desiderava altro che mettere le mani sul libro. E lui la guardava mentre scriveva, sorseggiando vino e assaporando il suo grande potere, mentre la guardava. Bella, lei, che quando rideva chiudeva gli occhi e buttava la testa all’indietro, come una ragazzina. Un grande potere, lui, il Viaggiatore.
Era stato quel potere che, ormai pienamente consapevole della sua forza, gli aveva consegnato la morbida resa della Professoressa che aveva accolto il libro come un dono fatto di fresco di Breva e sapore di amicizia da portare con sé di pianeta in pianeta, attraverso il suo tempo e oltre, per generazioni, in assenza di tempo. Così aveva scritto la Professoressa dalle dita severe sul manoscritto.
Lui, il Viaggiatore, stabiliva il dove e il quando mettere in scena i personaggi della storia di cui era protagonista e autore, facendoli muovere di volta in volta, in un film americano degli anni Cinquanta o in un racconto poliziesco o di fantascienza e arrivando a sfidare i Totem, parafrasando la Letteratura, Autore contro Autore, alla pari.
Così era andato avanti con tracotanza per mesi. Aveva avuto gioco facile sul Biondo e aveva battuto il Principe incantatore di femmine le cui parole erano capaci, da sole, di sfiorare il bordo di ogni gonna.
Più difficile era stato domare Sweetie, quando il sorriso dei suoi occhi lo aveva ammaliato facendogli quasi perdere il controllo del libro, per il solo piacere di cedere al desiderio di lasciarlo, ancora un po’, sensuale, tra le mani di lei che resistevano a restituirlo dopo averci scritto sopra la sua storia.
Aveva vacillato il Viaggiatore.
Per la prima volta gli era passato per la mente di mandare all’aria quel gioco, chiudere il libro e prendere le mani della donna tra le sue e dirle negli occhi: guardami, sono io, e da qualche parte devo avere pure un nome e una vita… ma non mi ricordo più.
Non si ricordava… E allora, lui era il Viaggiatore e il suo destino era dentro quel libro e dentro c’era scritta la sua condanna: o sei un demone o sei fottuto.
Avrebbe continuato ad esistere. E a recitare la sua parte fino in fondo.
Ora aveva di fronte l’Archivista, però, e lei sapeva di avere una possibilità di vincere, mettendosi in mezzo, tra le pagine del libro e il bisogno di esistenza del Viaggiatore.
Se non sei un demone, ti fotto, Viaggiatore, si ripeteva, per darsi forza.
Ma era inquieta.
E non scriveva.
Non ancora.
Il Viaggiatore era di fronte a lei, meno spavaldo.
Si vedeva che era stanco.
L’Archivista aveva il libro tra le mani.
Il Viaggiatore la guardava; stanco.
L’Archivista continuava a tenere poggiata una mano sul libro aperto.
Aveva belle mani e lo sapeva.
Allora il Viaggiatore cominciò a parlare di sé e del libro; del suo non sapere più riconoscere chi decideva cosa negli incontri che segnavano la sua vita e le pagine del libro; del suo non essere più sicuro di riuscire a sostenere il gioco che aveva creato; della sua voglia di fermarsi a riposare, nelle locande degli incontri del suo viaggio, posando uno sguardo leggero negli occhi di chi aveva di fronte, senza dovere trasformare in storia ogni gesto.
C’era del vuoto intorno ad avvolgere entrambi.
Sulla parete, La foto di una splendida Sofia Loren, la più bella che l’Archivista avesse mai vista, le catturava lo sguardo. Sentì una grande spossatezza e una voglia di uscire fuori da quel posto che, all’improvviso era tornato ad essere quello che era: uno dei luoghi dove la vita di lei si accasava, tra pause pranzo con i colleghi o tè con le amiche, un giorno dopo l’altro, senza niente a che vedere con storie di libri e incanti, viaggiatori e archiviste.
Fuori c’era da respirare l’aria fresca della primavera sbocciata tra le pieghe di un invero che le resisteva.
Chiuse il libro.
Sorrise all’uomo che aveva di fronte.
Lo chiamò per nome e gli chiese se avesse mangiato. Facevano delle ottime focacce lì.
Perché certi libri ti catturano anche quando li leggi, ma quando li scrivi, anzi li plasmi dagli sguardi e dalle parole delle persone che incontri e che trasformi in personaggi, o sei un demone o sei fottuto.
Il locale sulla piazza ha le vetrine color ambra. La superficie del vetro offusca appena le immagini all'interno della sala. Lei osserva gente e oggetti che sembrano impurità fossili imprigionate nella resina
Il locale sulla piazza ha le vetrine color ambra. La superficie del vetro offusca appena le immagini all'interno della sala. Lei osserva gente e oggetti che sembrano impurità fossili imprigionate nella resina in un movimento di un attimo, rimasto sospeso in un tempo già passato o ancora da venire, tra i suoi occhi e la vita che continua a scorrere dentro e fuori dal locale. Decide di chiamarsi Emma.
C'è una donna bionda seduta a un tavolo, con un calice di vino in mano e lo sguardo rivolto all'esterno in direzione della cattedrale da secoli immobile al di là della vita della piazza. Emma può fingere di guardare i dolci su un tavolino accostato alla vetrina. La tovaglia ricamata dovrebbe essere bianca come quelle del corredo da sposa di sua madre, e la crema che farcisce la torta già tagliata potrebbe essere panna, ma anche crema pasticcera. La luce filtrata dal vetro vela ogni cosa di una sfumatura di tramonto.
Sul vetro, Emma può vedere in primo piano il riflesso sfocato del suo viso; nell'angolo in basso a destra, il tavolino dei dolci; al centro della scena, la donna bionda: labbra sottili, capelli corti, scialle dai colori necessariamente autunnali, gambe accavallate, pantaloni morbidi sulle caviglie.
Dall'interno, la donna bionda potrebbe osservare una ragazza che guarda attraverso un altro pensiero i dolci sul tavolino. Ha una grossa treccia bruna su una spalla e un cappotto dai colori necessariamente autunnali. Sullo sfondo, la facciata della cattedrale, sbavata dall'effetto del vetro colorato, somiglia a uno dei quadri di Monet: Cattedrale di Rouen nella luce del pomeriggio. Emma potrebbe sembrare un'impurità nell'ambra. La donna bionda potrebbe pensare che stia aspettando un uomo che tarda. Andranno in una camera dell'albergo per turisti, due portoni più in là, e lei scioglierà la treccia per lui.
La donna bionda porta il calice alle labbra. Non può che essere vino, pensa Emma, un vino dal caldo colore dell'ambra che evoca l'odore dell'interno della buccia dell'uva, e suo nonno che faceva il vino, e gli albori della vita sulla Terra. Pensa che la donna bionda ha aspettato un uomo e adesso ha smesso di aspettare e sta bevendo la fine dell'attesa. Emma non sa se lui sia appena andato via o se non sia mai arrivato a un appuntamento. L'espressione della donna bionda è indecifrabile nella resina che la racchiude.
È bella, pensa Emma. Magari sta ancora aspettando qualcuno; magari non un uomo, ma una ragazza con una grossa treccia bruna e labbra truccate di un tono d'autunno intenso, più intenso del colore del vino. La ragazza entrerà nel locale e si chinerà su di lei con un bacio morbido, più morbido del sapore del vino. Socchiude gli occhi Emma, per il tempo di un attimo sospeso, già passato o ancora da venire tra i suoi occhi e la vita che scorre dentro le sue vene. Poi si allontana, mentre il suono prolungato di un clacson sfregia i pensieri.
La donna bionda poggia il bicchiere sul tavolo. Solleva lo sguardo e vede una ragazza bruna che va veloce verso la vita della piazza.
ti direi che le parole della vita e della morte
sono ancora fuse insieme
e nei gesti delle mie mani senza cicatrici
Nella morte di chi sopravvive ai mondi che ha attraversato
e ai suoi compagni di viaggio
non c'è alcuna gloria,
né memoria.
Perché quando sopravvivi a chi ha vissuto con te le morte stagioni,
nessuno potrà cantare, in quella presente e viva,
il poema epico di quella volta che da bambino,
da adolescente,
da giovane uomo,
affrontasti una sbucciatura sul ginocchio,
un'interrogazione di matematica,
i draghi, i giganti o i mulini a vento
e salvasti qualche principessa rinchiusa in qualche torre da una strega cattiva.
È poca cosa, e fasulla, e misera, quello che di te possono cantare i tuoi figli,
impegnati prima a crescere,
malgrado te,
e poi ad accompagnare, senza lasciarsene sopraffare,
l'increscioso finire del tuo corpo
e della tua mente.
Se sopravvivi a chi ti è stato compagno nella vita,
seppellisci, ad ogni funerale,
brani di memoria della tua esistenza
fino a che,
al tuo ostinato restare attaccato al ramo
come d'autunno sull'albero l'ultima foglia,
basta un respiro lieve dell'aria,
neanche un soffio di vento;
più un sospiro di sollievo.
2. Pimplee
Magari potessi salvare con la letteratura la tua esistenza, padre,
prima che la tua mente se ne vada per sempre tra gli incubi
dai quali torna di rado ormai,
e con fatica crescente.
Scriverei quello che so di te, e ti chiederei quello che non so,
e metterei al sicuro la tua forza e i tuoi ricordi,
al di qua dei tuoi incubi.
Scriverei un poema epico per te, padre,
e vincerei di mille secoli il silenzio.
Ma non si gioca a fare letteratura con i padri come te.
Ai padri come te si regalano nipoti, semmai,
perché i nipoti restano sempre al di qua di tutti gli incubi
e di tutta la letteratura.
3. Cenere
Ti racconterei i raggi del sole
che attraversano la tua grandine finissima
e il brillare della pioggia di petali di zagara
nel suo sfiorire in frutti.
E ti direi che le parole della vita e della morte
sono ancora fuse insieme
e nei gesti delle mie mani senza cicatrici.
Sarai lieve sulla terra