baricco su city

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Baricco su City


L'idea che mi sono fatto io è che in City sono entrati meno lettori che non nei miei altri romanzi, ma quando sono entrati hanno fatto un'esperienza che negli altri romanzi non c'è.

Questa è la mia illusione che giustifica il libro che è il libro mio che io più amo.

Perché è geniale.

(Dal Salone del libro di Parigi del 23 marzo 2002)

 

Tutto quello che ho da dire su City dal sito abcity.it
Prefazione sui risvolti di copertina
Dal forum La city dei lettori su abcity.it
Dal dialogo tra Alessandro Baricco e Anne Dufourmantelle del 19 luglio 1999
D
alla chat su City del 29 giugno 2000
Dal volume primo di  Punteggiatura del 2001
Dal Salone del libro di Parigi del 23 marzo 2002
Dalla chat su Senza sangue del 28 agosto 2002
Dall’intervista su Repubblica del 9 novembre 2002
Dalla chat su Senza sangue un anno dopo del 13 ottobre 2003
Dall'intervista di Kay Rush a Nonsolomusica su Telecinco
Dall’intervista a Rolling Stone del 30 novembre 2007
Baricco sul sito di lancio di City anni dopo
Sul prof. Mondrian Kilroy in Lezione ventuno
Dalla serata del 29 novembre 2009 dedicata a Emmaus al Teatro Valle
Dalla conversazione con Marino Sinibaldi del 16 aprile 2010 per Radio3 InFestival
Baricco a Pordenonelegge 17 settembre 2011


Presentazione sul sito abcity.it

TUTTO QUELLO CHE HO DA DIRE SU CITY.

Intanto, il titolo. Il mio ultimo libro l’ho intitolato City. Mi rendo conto che non è una grande idea per uno che, il libro precedente, l’ha intitolato Seta. Immagino che adesso mi toccherà scrivere Sete (pensavo alla storia di una cittadina, nell’Idaho, dove una mattina tutti si svegliano e il fiume si è seccato, la Coca Cola è finita, i radiatori delle macchine sono vuoti, i bambini piangono senza lacrime, le vaschette dei cessi sono a secco e così via. Fatti i conti, l’unica cosa che rimane, liquida e bevibile, in tutta la città, è roba alcoolica. E tutti lì, con una sete pazzesca. Il finale però non mi è venuto ancora in mente). Insomma, non è stata una grande idea. Però ci tenevo, a City, perché dice cosa questo libro è sempre stato, nella mia testa. Una città. Non una città precisa. L’impronta di una città qualsiasi, piuttosto. Il suo scheletro. Pensavo alle storie che avevo in mente come a dei quartieri. E immaginavo personaggi che erano strade, e alle volte iniziavano e morivano in un quartiere, altre attraversavano la città intera, infilzando quartieri e mondi che non c’entravano niente uno con l’altro e che pure erano la stessa città. City.

Pensavo a quando vai in una città, e poi quando torni ti chiedono se l’hai vista, quella città, e tu dici di sì, ma è evidente che non l’hai vista, veramente, ne hai viste porzioni irregolari e casuali, ma dici che sì, l’hai vista. City. Volevo scrivere un libro che si muovesse come uno che si perde in una città. Poi, tornato a casa, gli chiedevano cosa aveva visto. Ho visto City.
L’ho scritto - il libro - e poi l’ho intitolato City. Mi sembrava la cosa giusta da fare.
I personaggi - le strade - sono tanti. C’è un barbiere che il giovedì taglia i capelli gratis, uno che è un gigante, un altro che è muto. C’è un ragazzino che si chiama Gould, e una ragazza che si chiama Shatzy Shell (niente a che vedere con quello della benzina). Ci sono dei professori, della gente che gioca a calcio, un bambino nero che tira a canestro e ci becca sempre, e c’è anche un generale dell’esercito. Gente. Strade. Si prendono le strade e si va.

Per la prima volta, ho fatto questa cosa strana di raccontare storie che accadono ai giorni nostri, e non in qualche immaginario passato. Me l’ero promesso. Così l’ho fatto. Mi son messo di impegno: per dire: il libro inizia con una telefonata. Roba moderna.

Ci sono anche televisori, automobili, pullman, e, a un certo punto, una roulotte. Volevo anche mettere uno che mandava un fax, ma non mi è riuscito. La prossima volta. Comunque, dato che i vizi sono difficili da abbandonare, in City ci sono anche due quartieri, piuttosto grandi, spostati un po’ indietro nel tempo. C’è una storia di boxe, e c’è un western. Già. Il western è una cosa a cui pensavo da anni. Mi chiedevo se era possibile scrivere un western, nel senso di farne un libro e non un film. Stavo sempre lì a immaginarmi come diavolo uno poteva fare a scrivere la sparatoria finale. Scriverla bene, voglio dire, che proprio te la sentivi addosso, e te la bevevi tutta in apnea. Prima o poi dovevo provarci. L’ho fatto, e mi son divertito molto. Se non avessi da scrivere Sete, credo che non scriverei altro che western, adesso. Quanto alla boxe, quello è un mondo pazzesco, bellissimo. Se solo sei uno che scrive, non puoi veramente guardarlo senza sentirti salire una voglia bestiale di provare a scrivere quello che stai guardando. Hai un bel dirti che l’ha già fatto Jack London. Prima o poi ci caschi. Meglio prima, mi son detto. E anche lì mi son divertito molto. Faticoso, ma sai che giostra, per la fantasìa.

Ancora una cosa vorrei dire. Dato che uno dei personaggi (il ragazzino che si chiama Gould) va all’Università, ogni tanto, in City, compaiono dei professori che, secondo una certa logica, fanno lezione. Ce n’è uno che si chiama Mondrian Kilroy. E’ quello che mi piace di più. E’ lui che, a un certo punto, si mette a scrivere un Saggio, e come argomento sceglie: l’onestà intellettuale. Io ci sto spesso a pensare, a quella faccenda, a cosa significhi essere onesti se sei un intellettuale. E’ una storia complicata. Non sono mai riuscito a capirci molto. Però so che tutto passa da lì, che è lì che si decide quanto facciamo schifo, o quanto, invece, riusciamo a essere uomini giusti. Così ho preso Mondrian Kilroy e gli ho fatto scrivere quel Saggio: mi sembrava un tipo abbastanza ingenuo, e pulito, per poterlo fare. A leggerlo sembra una denuncia dei vizi altrui, ma non è solo quello: è anche un’autodenuncia, e un modo di guardarmi allo specchio. Non è che quello che si vede sia una meraviglia. Ma chiudere gli occhi, quello non mi va di farlo. Così quelle pagine le ho scritte e poi non le ho tolte.

Il prof. Mondrian Kilroy ci ha messo una breve nota, alla fine. Dice: “Un’altra vita, saremo onesti. Saremo capaci di tacere”. Non ho ancora capito bene in che modo, ma essere capaci di silenzio è una cosa che c’entra molto con l’essere onesti, se fai un mestiere come il mio. Forse perfino la capacità di essere assenti. Così, se solo vi capiterà di leggerle, quelle pagine, potrete forse capire perché tutto quello che avevo da dire, su City, l’ho scritto qui, e da adesso me ne starò in silenzio. Già con gli altri libri mi è sempre sembrata una cosa vagamente disonesta parlare in pubblico di ciò che avevo scritto. Con questo, proprio non mi riuscirebbe di farlo. Il prof. Mondrian Kilroy non me lo perdonerebbe mai. Per cui niente interviste o presentazioni o dibattiti. Giusto queste righe, posate in questo posto che quasi non esiste - dedicate a chi le troverà.
Quanto a sparire del tutto, l’ho detto, al prof. Mondrian Kilroy: non sono abbastanza onesto - o forte - per farlo. Mi spiace.

Un’altra volta, magari.

A.B.

La Prefazione sui risvolti di copertina della prima edizione di City

Questo libro si intitola City. Mi rendo conto che, dopo Seta, era meglio trovare qualcosa che suonasse un po’ diverso. Ma questo libro è costruito come una città, come l’idea di una città. Mi piaceva che il titolo lo dicesse. Adesso lo dice.

  Le storie sono quartieri, i personaggi sono strade. Il resto è tempo che passa, voglia di vagabondare e bisogno di guardare. Ci ho viaggiato per tre anni in City. Il lettore, se vorrà, potrà rifare la mia strada. È il bello, e il difficile, di tutti i libri: si può viaggiare nel viaggio di un altro?

  Così, per la cronaca, vorrei dire che per la prima volta ho scritto un libro che, almeno in parte, è ambientato ai giorni nostri. Ci sono automobili, telefono, pullman, c’è perfino un televisore, e a un certo punto c’è un signore che vende una roulotte. Non ci sono computer, ma un giorno ci arriverò. Per intanto mi sono un po’ riposato dallo sforzo disegnando un paio di quartieri, in City, che scivolano indietro nel tempo. In uno c’è una storia di boxe, ai tempi della radio. Nell’altro c’è un western. Ho sempre desiderato scrivere un western. È molto divertente e anche molto difficile. Passi tutto il tempo a chiederti come diavolo farai a scrivere la sparatoria finale.

Quanto ai personaggi – alle strade – c’è un po’ di tutto. Ci sono uno che è un gigante, uno che è muto, un barbiere che il giovedì taglia i capelli gratis, un generale dell’esercito, molti professori, gente che gioca a pallone, un bambino nero che tira a canestro e ci becca sempre. Gente così.

  C’è un ragazzino che si chiama Gould e una ragazza che si chiama Shatzy Shell (niente a che vedere con quello della benzina)

  Mi mancheranno.

AB

Messaggio di Baricco del giugno 1999 sul City forum

A.
Ehi. Sono io. Volevo dire alcune cose e rispondere a qualche domanda. In ordine sparso. 1) Certo che vi leggo. Mi piace molto. Mi sembra che capiate City molto più di quelli che leggo sui giornali. E non smetterò di leggervi. 2) L'idea era quella di non rispondere mai, io. Perché non credo molto che uno scrittore debba spiegare qualcosa di sè al lettore. Il lettore, meno sa di me, meglio è. L'importante sono i libri: chi li scrive è abbastanza insignificante. Secondo me ha un senso che chi legge City abbia un luogo dove poter scrivere cosa ne pensa e leggere cosa ne pensano gli altri. Così il gesto della lettura diventa un po' meno solitario. Tutto qui. Poi magari ogni tanto qualche cosa mi verrà da scriverla, ma insomma, non credo che avverrà sovente. 3) Totem non è stato interrotto dalla Rai: approfitto dell'occasione per dirlo chiaramente. Totem è una cosa che di solito accade a teatro e dura due serate di due ore e mezza l'una (la prossima volta la faccimao a Nora, in Sardegna, il 4 e 5 agosto, credo). In televisione abbiamo fatto qualcosa di molto simile: due serate un po' più corte. Quindi, questa volta, niente rimproveri alla Rai, che, al contrario, ha avuto il coraggio di mandare in onda Totem in prima serata (Freccero è abbastanza matto e molto furbo) 4) Ma questo City di Clifford Simak si trova? In libreria, dico. Si trova? 5) Ogni tanto scrivete cose che mi fanno veramente divertire. Mi è piaciuta molto quella là che aspetta un bambino e spera che gliene nasca uno capace di rispondere ai questionari partendo dalla domanda 22 e non dalla numero 1. E mi piacciono quelli che scrivono dall'estero, e si vede che la nostalgia non li molla. E mi è piaciuta Catia con la C, perché anch'io ho pensato spesso che i libri non dovrebbero avere una trama, perché distrae. 6) Per la cronaca: questo sito non chiuderà. Cioè, fino a che qualcuno lo userà, rimarrà aperto. Il bello sarà quando City uscirà all'estero (ci vorrà qualche mese, un anno) così vedremo cosa ne pensano gli altri, di City. E sarà una bella Babele di lingue. 7) Il finale di Castelli di rabbia non lo posso spiegare, mi spiace. Però basta prenderlo, toglierlo da lì e metterlo all'inizio del libro, come Prologo, e si capisce tutto. 8) Il racconto Il rigore più lungo del mondo, di Soriano, si trova in un libro Einaudi intitolato Pensare con i piedi e in un altro, sempre Einaudi, intitolato Futbol. 9)Ogni tanto fare il mio mestiere diventa durissimo. Il perché è noioso e non ve lo spiego. Però volevo dire che leggere nei vostri messaggi la passione e la forza con cui leggete è una cosa che mi aiuta molto a non mollare 10) Vedo che la critica più diffusa è quella di narcisismo, autocompiacimento, ego siliconato, scrittura che si bea di se stessa, cose così. E' da quando ho iniziato a scrivere che mi inseguono critiche di quel tipo. Evidentemente, qualcosa di vero ci dev'essere. Però temo che la cosa sia più complessa di quanto sembri. Comunque: ci penserò. Vediamo cosa si può fare. (Il fatto è che quando io scrivo godo e mi diverto: perché non dovrebbe venire fuori? perché dovrei nasconderlo? E se scrivo un pezzo del western che mi sembra fantastico, perché mai dovrei farlo un po' più brutto? Perché suoni meno falso? A me non importa che suoni falso. A me importa che suoni. Come le case del salone La casa ideale, mi spiego? Potrei andare avanti ore, a parlarne: ma come vedete, non è una faccenda così scontata come sembra) 11) Un grazie speciale a Doninelli, Voltolini e Cotroneo, che hanno lasciato un messaggio qui. 12) Sono stanco cone un ciclista in salita. Mi sa che per un po' sparisco. Stay hard, stay hungry, stay alive. AB ()

Dal Dialogue tra Alessandro Baricco e Anne Dufourmantelle del 19 luglio 1999

in Constellations, Calmann Levyi, 1999

(traduzione a cura di Labcity.eu)

AD: In City, il tuo ultimo romanzo, tu dici che il romanzo è come il quartiere di una città dove i personaggi sarebbero le strade, e ci fai raggiungere uno spazio interiore che non è psicologico, che non si informa di ciò che pensano o di ciò che mobilitano i personaggi, ma che è dato, mi sembra, in una relazione a due tra due esseri o tra qualcuno e un paesaggio, un oggetto, un elemento del racconto. La libertà di scrittore che tu esprimi là è come questa "musica bianca" che tu descrivi in Seta, tenue, sottile, vicina a una trama oggettiva del mondo.

 

AB: In termini filosofici, è la relazione del pensiero con il vuoto, è l'attitudine a lavorare con strutture che non sono troppo marcate, ma ciò non basta più... anche in ciò che è debole, diceva Vattimo, bisogna trovare il sostrato, l'elemento portante del testo, la forza.

 

AD: Si ha l'impressione che è in ciò che si tesse nel dialogo che unisce un personaggio e un elemento del paesaggio, con il mare, con il vento, con un binario ferroviario interminabile, che si tiene il romanzo. Questo spazio che è creato là diviene esso stesso il protagonista della storia, come la fanfara che tu descrivi in Castelli di rabbia, dove ogni membro del coro e responsabile di una sola nota, dove il direttore d'orchestra deve agire con questa partizione umana; è una certa immagine del mondo...

 

AB: É una cosa chimica, una cristallizzazione. C'è l'idea che lo scrittore deve sottrarre un po' della sua forza al personaggio, sennò ne farà un eroe, un soggetto nel senso hegeliano del termine. Ora, se gli si preleva un po' di questa forza, si deve trovare qualcosa d'altro a questo personaggio, e ciò, è interessante. Se non è " lui", "lei", o un altro, che resta nella storia? È molto bello, perché lavori in un paesaggio che tu non conosci, dove tu cerchi dei punti di forza differenti. Una volta, è la ruota, o proprio il mare, mentre tu organizzi la vita vicino all'acqua perché si ha bisogno di essa, ma siccome tu non puoi bere quell'acqua allora non vale più niente, allora tu vai ad affrontare il vuoto su un altro punto, ma tu continuerai a seguire la linea di forza.

È un'immagine per tentare di dire ciò che è veramente straordinario nella scrittura, ed è la mia passione. Io non conosco questo paesaggio. Io sono sempre in cerca, come l'animale che va solo a cercare la vita dove essa è, e che la cercherà ovunque. Se si perde la forza, si fa qualche cosa che non resta... sarà un fumetto, ci sarà lo spettacolare e niente altro. Bisogna cercare la forza come le correnti sottomarine, sapere che si lavora con qualcosa che non esiste ancora... presentirlo, infatti, come lo presentivano i primi esploratori che andavano scoprire l'Africa. Essi avevano delle carte geografiche con appena il disegno delle rive e all'interno: terra incognita. All'interno, non c'è più niente di scritto, ma forse ci sono le sorgenti dei fiumi... io lavoro un po' così, e se trovo dei lettori che vengono con me in questo viaggio, è meglio...


Dal volume primo di Punteggiatura del 2001

(AA.VV., Punteggiatura, a cura di A. Baricco, F. Tarocco, G. Vasta e D. Voltolini, BUR, 2001)



Sul punto

Ogni scrittura cerca il punto: lo va a cercare, lo insegue, alla fine lo trova. Punto. È il ritmo del proprio spirito, ed è la promessa di un ordine. Punto. Le scritture sono respiri ordinati di linguaggio. Punto.

Nella scrittura letteraria c'è qualcosa di più. Mi chiedo se la scrittura letteraria non tramandi, accanto all' istinto atavico per il respiro, una sorta di libidinosa attrazione per l'asfissia, o meglio, per un nonrespiro. Così si potrebbe immaginare tutta la scrittura letteraria come un arco teso tra due punti:

1) trovare il punto;

2) evadere dal punto.

Detto in altro modo:

1) creare un ordine;

2) evadere dall' ordine.

Oppure, raccogliendo tutto in un unico principio:

1) creare un ordine e poi sfasciarlo.

Si potrebbe anche dire:

2) imparare a respirare così bene da rimanere, per la meraviglia, senza fiato.

Una prodezza è respirare. Una prodezza è andare oltre al respiro. Annoto due esempi, per utilità. Il primo, proustiano, dimostra il livello raggiunto dalla scrittura letteraria nella ricerca del respiro. L' acrobazia consiste nell' allontanarsi sempre di più dal punto di partenza, collezionando dettagli di mondo, e poi riportare indietro il lettore al saldo appiglio del punto (la chiusura del respiro) dimostrandogli che, sotto la guida del linguaggio, non c'è squarcio di mondo che alla fine non possa essere suturato, e dunque risanato, dalla perizia tecnica e dalla lungimiranza spirituale dello scrittore. Il secondo esempio, da Dos Passos, mostra dove si finisce se si sospende l'uso del punto, suggerendo che nessuno squarcio di mondo resta autentico se raccolto nell' artificialità del respiro e ricostruito dalla artificiale protesi della sintassi. Il mondo non respira: agonizza – l'esempio dice.

[…]

Un segno per rompere la frase

Forse una cosa utile sarebbe avere a disposizione un segno che indicasse la rottura di una frase, e non, come il punto, semplicemente la sua fine. Ci sono frasi che finiscono ma non sono affatto finite. Ci sono sequenze di frasi non finite. Ci dovrebbe essere la possibilità di lavorare su mozziconi di frasi. Una soluzione attualmente è il tre puntini céliniano. Ma, appunto, riporta un po’ troppo a Céline, e comunque si trascina dietro quel concetto di “sopensione” (puntini di sospensione, si chiamano) che è diverso dall’idea di una brusca interruzione. C’è meno violenza di quanto si vorrebbe, è un po’ come usare una dissolvenza incrociata là dove si vorrebbe un rapidissimo stacco su un nero. Scena, nero e di nuovo scena. Tutto molto veloce. Io ho provato a usare lo slash (/) e quando non c'erano ancora gli indirizzi web suonava un po' misterioso. Adesso che si è fatto l'occhio, sembra che con i lettori funzioni. Graficamente non è una meraviglia, ma dà bene il senso dell' interruzione e della ripresa rapida. So che non è elegante, ma per dare un' idea devo citare un pezzo di City.

Mi spiace:

 

non c' è in nessuna donna tutta la donna che c' è in un tacco a spillo perso per strada / lì c' è a portata di mano qualcosa che assomiglia / qualcosa che è il nocciolo ultimo dell' immane collettiva esperienza e storia giacente sotto il nome di donna / diciamo la verità cangiante / più precisamente ciò che nel reale corrisponde a quanto nel nostro orizzonte percettivo accade in quanto emozione e sensazione riportabile all' espressione linguistica donna

 

Più o meno così. O lo slash o qualcosa di meglio. Ma a me quel segno manca.



Su Repubblica del 05/05/2001 Il respiro di Proust



Dal Salone del libro di Parigi del 23 marzo 2002


Seta vs City

Seta è una storia che racconta l’esperienza dell’amore coniugale e del tradimento. Tutto quello che io posso aver capito di questo è in quella storia. Questa storia è molto piaciuta. È stata molto letta da tutte le parti del mondo e qualche volta io mi sono chiesto: quella storia è troppo pulita per essere vera. Dice delle cose vere ma il modo in cui le dice le rende false. Non tanto false, quanto indolori. Non c’è fatica, leggendo Seta, per il lettore. Il cervello lavora ma ...voi siete molto tranquilli nella vostra sedia, molto difesi.

Allora il problema è: come conservare una forma di autenticità in quello che noi narratori raccontiamo? City nasce da quello. Io creo delle difficoltà in più nella lettura tua e tu sei come una persona che si sta perdendo in una città, tu a poco a poco diventi come una persona che si sta perdendo in una città. Questo ti rende più debole. A un certo punto sei un po' persa. Senti una musica di una fisarmonica. E tu senti qualcosa e dici: che emozione. Ti giri, guardi quello che suona la fisarmonica e lo vedi. Veramente. Perché hai paura, perché sei sola, perché ti sei persa, perché sei stanca, perché hai fame.

Seta invece è come te che giri per Parigi, proprio nel tuo arrondissement. Conosci tutto. A un certo punto c'è uno che suona la fisarmonica. Tu neanche ti giri. Dici: Ah, beh. Non rimane nulla.

Allora questa è un ipotesi. Quando ho scritto City avevo in mente questa esperienza per voi.

Io potrei smontare City e fare tre libri, tipo Seta: un western, una storia di pugilato, la storia di un bambino geniale. Sarebbero più belle ma sarebbero più indolori.

L'idea che mi sono fatto io è che in City sono entrati meno lettori che non nei miei altri romanzi, ma quando sono entrati hanno fatto un'esperienza che negli altri romanzi non c'è.

Questa è la mia illusione che giustifica il libro che è il libro mio che io più amo.

Perché è geniale.
[...]



Veranda

Dico una cosa in cui credo veramente: che in qualche modo, per riuscire a sopravvivere, noi dobbiamo vivere sulla veranda, non dentro casa.

Voglio dire che diventa importante quello che noi appariamo agli altri non quello che noi siamo veramente,  dentro la casa.

E' una tecnica di sopravvivenza, forse indispensabile.

Fare finta di essere felici, fare finta di essere amanti dei libri. ma poi chi sa se veramente li ami i libri. Ma è meglio per tutti se dici che li ami.

Finché ti dimentichi veramente tu cosa amavi e cosa no.

E non entri più in casa e vivi sulla veranda.

Devo dire che è un'altra delle cose che mi verrebbe da insegnare a mio figlio. Cioè, potrei dirgli: ok, prova a fare qualcosa di differente. Son contento se riuscirai a fare qualcosa di differente. Però papà e mamma han fatto così.

E, ça marche.



Traduzioni

Ci sono giusto due lingue nelle quali io posso leggere e capire.

Che sono francese e inglese.

E' una sensazione molto strana. naturalmente il francese è più vicino. Se un traduttore è bravo riesce  a ricostruire quasi la stessa musica. E nel mio caso io son fortunato. La musica è questa (non potrei dire altro perché è qua, ma ...è vero).

L'inglese mi fa sbiellare.

City in inglese è bellissimo. I dialoghi son più veloci. Il francese è più lento. Allora, alcuni pezzi in inglese mi sembrano più belli dell'italiano.



Dalla chat su Senza sangue del 28 agosto 2002


ciao Alessandro, è un grande libro Senza sangue?? A me è strapiaciuto Oceano Mare, invece con City eri un pò troppo avanti forse.. Con Senza Sangue quanto lontano sei andato..??

matteni

Con City andavo in un posto che ancora on conoscevo. Senza sangue sta in un posto che conoscevo meglio. Non so, è difficile da spiegare. Diciamo che ogni volta che io scrivo un libro è perché voglio finire in un posto che ho visto nelle mappe della mia immaginazione ma in cui non dono mai stato. presumo che esista, ma poi chissà. parto e lo vado a cercare. Il posto di City era davvero molto lontano, e infatti è un libro pieno di strappi, di tappe nel nulla, di falsi sentieri, cose così (che a me picciono molto, ai lettori meno). Senza sangue invece sta in un posto più vicino, molto difficile da raggiungere (salite della madonna), ma più vicino. E infatti non ci sono strappi, è più compatto, è come il passo di uno che sale su una montagna. Ci hai capito qualcosa?

dai, ci fai l'hit-parade delle cose che hai scritto? e dai...

la'

Okay. E' imbecille farlo, ma lo faccio. la cosa migliore che ho scritto è l'articolo che ho scritto l'11 settembre per Repubblica. Non è che fosse geniale, ma in quelle ore, stavano tutti immobilizzati davanti al televisore, tutti avevano una fantastica confusione in testa, nessuno ci capiva niente, tutti si telefonavano, e io mi son chiuso in camera ho acceso il computer e ho cercato di scrivere qulacosa di chiaro, e di intelligente, perché se uno scrive, nella vita, in momenti come quelli deve fare esattamente quello: scrivere. Come il pompiere che deve andare a lavorare quando scoppia l'incendio. Gli altri possono anche correre in giro e strillare, ma il pompiere deve rimanere calmo e fare quello che sa. Così quel giorno mi son messo lì a scrivere. E se rileggo adesso quel che ho scritto quel giorno non mi sembrano cazzate, mi sembra che ho fatto il pompiere abbastanza bene, ho fatto il mio dovere quando era molto difficile farlo. Ecco. Forse la storia migliore che mi è venuta in mente è 900. Forse il miglior libro è il primo, Castelli di rabbia, perché c'era un'originalità e una forza lì dentro che continua sembrarmi speciale. E dato che City è un remake di Castelli di rabbia mi sembra che anche City sia un gran libro. Il personaggio migliore forse è bartleboom. però anche Nina si Senza Sangue mi piace molto. la cosa peggiore che ho scritto è Davila Roa (ma comunque, in mezzo a tanta merda, c'era anche qualcosa di geniale, là dentro). Voilà.

Interessante la tua parade, peccato che tu non abbia citato Oceano Mare che, ci scommetto, assieme a Novecento è quello che tutti noi "fans" amiamo di più....

Daniela daniela.mo@libero.it

Lo so, Ocenao Mare resta forse il più amato. Hocercato di capire il perché, ma non so bene. Forse lì c'era una forma di poesia che ai tempi amavo molto, e che poi mi è venuto da limare molto, asciugare, che ne so, nascondere, forse. Ma i lettori l'hanno molto amata. E poi forse c'è un'altra cosa: Oceano Mare è il libro che sta meglio in bilico fra complessità e ordine, tra generosità e rigore. City, per esempio, sborda verso il caos, e Seta è maniacalmente ordinato, non c'è caos. Però è proprio per quello che io non riesco ad amare OM come certi miei lettori: mi sembra un po' troppo "giusto", se capite cosa voglio dire. I libri dovrebbero essere sempre delle avventatezze, dei gesti maleducati, degli errori (se capite cosa voglio dire).

Ieri ti hanno accusato di narcisismo e ritrosia perchè non concedi interviste. Hai detto che il silenzio c'entra molto con l'essere onesti. E' vero in molti casi, ma nel tuo perchè?

Anto

perché le cose che facciamo (tutti, non solo io) mi sembrano migliori di quello che diciamo. Perché sono vere, mentre è molto più facile bluffare parlando. per cui io non voglio stare zitto tutta la vita, ma se riesco, voglio parlare poco dei miei libri. Voglio farlo in poche occasioni, e possibilmente con gente che mi piace. Cioè, non è solo quello. Ho porvato a spiegarlo in City: parlare delle cose che facciamo ci porta lontano dalle cose che facciamo, ci allontana dall'origine, ci fa perdere contatto con quel poco di autentico che magari c'è in noi. per cui conviene farlo senza esagerare. Ma insomma, lasciate perdere, è un mio pallino, non state ad ascoltarmi.



Salve Baricco, Le scrivo dagli USA, dove studio per un dottorato di ricerca in lett. comparata e insegno. Qui sono appena le nove di mattina. Allora, City e' finito sul programma di un corso di letteratura comparata qui a Penn State, condotto dal professor Djelal Kadir. Il corso, che iniziera' il 9 settembre, si intitola "Worlding America": parleremo dell'"America" descritta e raccontata dal di fuori delle Americhe, dai tempi pre-colombiani ad oggi. A seguire il corso ci sono diversi studenti avanzati, a cui rimane solo la tesi di dottorato da scrivere. Io faccio parte di tale ciurmia e in qualita' di ABD student ("all but dissertation," but we like to think of ourselves as "all but dead"), mi tocchera' condurre una lezione per i i mei colleghi. Il 18 novembre parlero', fra l'altro, di City e dell'America di City... compito estremamente difficile! Ma felice (adesso dovrei spiegarle che mi occupo di images of the US in narrative, in particular fisrt-person narratives, and film outside of the US, ma e' troppo lungo e non gliene frega niente a nessuno in tale constesto). Io avrei mille domande da farLe, come puo' immaginare, tutte domande da intellettuale... e mi vergogno e mi viene da ridere se penso al professor Kilroy, alle sue tesi sulle idee, e ad Ishmael, melvilliano platonista a caccia di pensieri elusivi... Non ce la faccio a fare domande. Mi vergogno troppo. Eh si', Moby Dick era la mia seconda bibbia, poi pero' sul comodino ci e' finito un altro libro, accanto alla bibbia: Oceano Mare, perche' quando voglio pregare in un certo modo, leggo ad alta voce la preghiera che e' li'. Quello che vorrei da Lei, invece, sono due parole (forse piu' di due) su City e l'America di City, qualcosa che io poi certamente leggero' in classe, il 18 novembre. Quando partii nel '99 per gli USA, avevo in borsa City, regalo d'arrivederci dei mei amici napoletani. Io sono di Napoli. In aereo pensavo, senza leggere (ho letto City dopo tre anni): "Che bello se riuscissi a portare ospite a Penn State Baricco!" Poi me ne sono dimentica (perche' ci si dimentica dei castelli in volo transatlantico quando si e' a terra e non ci si ripassa neanche in visita nel viaggio successivo.)Finche' un bel giorno il mio prof. mi fa: "Are you familiar with City?" E io sobbalzo: e' arrivato Baricco a Penn State! Dico al mio professore che, si', City e' in famiglia, accomodato sulla mia libreria; gli parlo di Seta, mai letto un quadro piu' bello, di Castelli di rabbia, di Novecento, di Oceano Mare che e' sul mio comodino, gli racconto la storia dei castelli in aereo, ma City non l'avevo ancora letto. Ora mi ci sono persa, e prima del 18 novembre dovro' rileggerlo almeno altre due volte per ricomporlo nella mia testa! Ho troppe idee strambe, al momento, tipo che City mi sembra pensato in americano, e tradotto in italiano --tant'e' vero che non vedo l'ora di leggere la traduzione!--, che la storia del bilirado,parabola perfetta della vita, mi sembra lo sfotto' delle armi intelligenti che sanno sempre dove colpire (efficacissimo accostamento di quella pagina alla presentazione del generale... piu' che la metafora, la' funziona la metonimia!), che le idee di Kilroy mi ricordano il Socrate di Platone, che e' difficile ricostruire il gicoco dei punti di vista. La verita': ci si sente piu' sicuri quando si capisce che Gould e' pazzo (Ah! Benedetta umanita'!)Pero' e piu' divertente andare a caccia di colui che ritrae se stesso nell'atto di inventare storie, in mezzo a tutti quei punti di vista (Melville mi ha abituato a questa caccia) Vede? Sto rischiando di "fare" l'intellettuale... mi perdoni il gico di parole. Mi faccia un regalo, se puo': mi parli dell'America di City e dell'ironia che l'ha costruita. E mi perdoni gli errori. Non ho lo spellcheck in italiano... :) Barbara Alfano

Barbara Alfano bxa152@psu.edu

Una cosa che ti può essere utile per il tuo studio è la seguente: io non ho mai pensato che City fosse ambientato in America. Naturalmente ci sono molte cose prettamente americane, ma, amche molte altre che con gli Stati Uniti c'entrano poco (che ne dici della passione di Gould per il soccer?). per me City è ambientato in Occidente, che ormai è un Paese unico, con molte inflessioni statunitensi, ma ricco anche di altre mille cose. Quel che è successo è che l'editore americano ha messo sul risvolto che il libro era ambientato negli Stati Uniti. Ho cercato di far loro capire che non era vero, ma non c'è stato nulla dafare. Forse pensano che in questo modo lo vendono un po' di più. Non so. D'altronde gli americani sono un tantino egoriferiti, come tu certo sai. Un giorno, a NY, ho incontrato un mio lettore che era andato pazzo per Silk, l'aveva letto mille volte e non so che altro, insomma era veramente rapito da quel libro, e sai la cosa che lo ha lasciato veramente secco quando mi ha incontrato? Scoprire che ero ITALIANO: Non gli era mai passato per la mente che io potessi essere uno scrittore NON americano. E' stato un trauma scoprire che Silk, in realtà, si intitolava

mi sono sempre chiesta : te lo volevo anche chiedere un giorno che ti ho incrociato per strada a torino! MA, A COSA PENSAVI QUANDO HAI SCRITTTO IL PEZZO DOVE IL DOTTOR HOREAU IMPAZZIVA???? (perdono, forse il nome non è questo, non lo ricordo, strano, penso di sapere a memoria interi pezzi del libro) ODIO LA MISERIA DI QUELLO CHE VEDETE QUANDO VI PERMETTETE DI GUARDARE LONTANO in quelle tre pagine esprimevi tutta la rabbia che io avevo dentro e che non riuscivo a spiegare a nessuno, nel tuo modo di scrivere assolutamente spezzettato ho ritrovato i movimenti del mio cervello e MI SONO SENTITA MENO SOLA!!!! GRAZIE ALESSANDRO e speriamo di riuscire a leggerlo questo "senza sangue" .... city l'ho iniziato mille volte e mai finito

laura laurocco@hotmail.com

In City, se hai solo la voglia di lasciarti smarrire, c'è quella stessa rabbia lì, sai?

Dall’intervista su Repubblica del 9 novembre 2002

Così trasformo il mio libro in concerto


«ho pensato che si poteva allestire un "reading", con una voce e mezzi semplici cercando la stessa intensità di Totem. Non a caso nel titolo l' ho chiamato "project", è un passaggio come era Totem all' inizio». Stavolta però ha scelto un libro suo, City, e inserisce la lettura dentro una struttura teatralmente più ricca. «City si presta bene: è un libro lungo costruito con pezzi brevi, quindi è smontabile. Senza sangue è invece come un 45 giri, con un pezzo per facciata. Ho scritto una versione teatrale prima della storia western e poi di tutto City, e l' ho intitolata The clockmaker. L' ho fatta leggere a Luca Ronconi e mi ha detto che in Italia non avrei trovato gli attori adatti a farlo. Per un progetto come City il problema è proprio questo: con quali attori? Con quali voci? Con che stile? Quando gli scrittori ascoltano un "reading" dei propri libri hanno una sensazione sgradevole, non ci si riconoscono. E' come per un regista teatrale non trovare l' attore giusto»

Dalla chat su Senza sangue un anno dopo del 13 ottobre 2003

Ti ho amato tanto, Ale, ma erano i tempi di Castelli di Rabbia e io allora ne avevo tanta ma così tanta addosso. Con City abbiamo cominciato a litigare e con "Senza sangue" ci siamo lasciati. Pensi mai che la colpa sia tua?

FIESTA

E' che io faccio la mia strada. Non è detto che sia sempre la tua. io cerco di non stare fermo. In qualche modo, ogni mio libro nasconde dentro il libro dopo: spesso come una forma di ribellione, perfino di rifiuto di quello che ho appena fatto. E così libro dopo libro adesso sono in un posto che è un po' differente da quello in cui ho scritto Castelli di rabbia. C'è aria più tersa. Forse i personaggi sono ancora semrpe quelli, ma c'è aria più tersa.

Ma mi spieghi, secondo te, perchè tutti hanno adorato Oceanomare e non altrettanto City? è la cosa più bella che tu abbia mai scritto, Castelli di rabbia a parte.........

Ele

Beh, Oceano mare è più comodo, è come una casa costruita per essere comoda, non banale, ma comoda. City invece è scomodo. Ti costringe a stare sveglio tutto il tempo. Ti costringe a fare strani giri. Non tutti gradiscono, sai? E poi credo ancheche sia una questione di poesia. Non so spiegarmi bene, ma in Oceano mare c'è una poesia immediatamente accessibile, mentre in City e più nascosta. Devi darle tempo.

hai letto senza sugo?

shatzy

No. Me l'hanno mandato, con dedica e tutto, ma poi l'ho perso di vista. Setola non era male. Chissà perché non hanno fatto la parodia di City...

Il peso dei lettori

Ti è mai capitato di sentire il peso reale

Gianluca

Il peso reale dei lettori? Sì, mi capita. Mi è capitato quando, da un libro all'altro, cambiavo direzione, e allora sentivo la fatica di trascinarmi dietro in quella curva tutta quella gente. Quando ho scritto City, che è un labirinto, dopo aver scritto Seta, che è una linea, ad esempio. E ovviamente quando ho scritto Senza Sangue, che è un distillato, dopo aver scritto City, che è un'alluvione.

Rubo una domanda dal forum di city : "Muoiono nello stesso respiro, gli amanti" Esiste davvero questo Robert Curts? In questo caso dove posso trovare la poesia citata?

Fra

No. E' tutta invenzione. Esiste un Burns, come sa chi ama molto Salinger...

Quando scrivi hai idea di come finirà la tua storia? Parti con le idee chiare, con la storia già creata o la crei mano a mano? Un po' e un po' immagino. Cosa di più?

mattia

Ho delle immagini in testa e una sequenza. E' come conoscere le stazioni del treno ma non il percorso. Poi in genere, le ultime stazioni le cambio mentre scrivo. Voglio dire che i finali mi vengono in mente per strada. Seta, per dire, non finiva affatto così. La storia della lettera mi è venuta in mente dopo. E il finale del western di City l'ho cercato a lungo quando avevo già scritto metà del libro. Una fatica porca, tra l'altro....


Dall'intervista di Kay Rush a Nonsolomusica su Telecinco

Intervista - Parte prima

[…]

KR - Ho cominciato a leggerlo e l'ho messo giù: questo non è il momento. Questo significa  che per me è un libro complesso, impegnativo. L'ho tirato fuori sei mesi fa e l'ho letto in un giorno.

[…] A te piace in maniera particolare questo libro.

 

AB - Sì a me piace molto City perché risolve molti problemi che erano aperti, per uno scrittore. Poi racconta delle cose che sono molto vicine al senso ultimo delle cose. Non ci sono tanti orpelli. Si va dritto allo scopo. Non c'è tanto decoro. C'è un punto e tac. Anche per questo ci sono storie del west, del pugilato, perché sono tutti mondi in cui non hai molto tempo per fare tante scappatoie o per gli arabeschi. Si gioca tutto in poco: il tempo di una sparatoria o di un incontro di boxe. È tutto un libro in cui le cose dell'umano sono spinte contro un muro e la gente deve decidere se stare... Per questo mi piace molto; e poi ha una costruzione molto bella. Mi piace molto.

Naturalmente dà dei problemi al lettore.

 

KR -  Ti rendevi conto mentre lo scrivevi?

 

AB - Sì. Ma sinceramente…

Avevo anche questo problema di questo grande pubblico di Seta, City è stato il libro che ho scritto dopo Seta. Nelle prime 50 pagine di City, subito hai l'impressione che è qualcosa di complicato, di complesso. Ed era per avvertire tutte queste centinaia di migliaia di lettori che questa era una storia, invece, che purtroppo aveva bisogno di... Per Non promettere cose che poi non mantenevo.

Per cui all'inizio il libro è molto duro. Chi supera quella selezione lì, poi secondo va, come te.

Poi va bene perché ci sono tante storie. È bello. Mi piace molto: c'è una strettoia iniziale, e poi, ma anche dopo. Ma, come dico sempre, è la stessa esperienza che si fa quando si va in una città che non si conosce: tu vai a New York esci da un albergo, prima volta, e certo che è difficile; non è come andare a casa tua. Giri,  sbagli, finisci in un quartiere, non so, cinese, poi dici: no, ma volevo andare alla cattedrale, poi vai alla cattedrale, giri. Lo stesso tipo di esperienza un po' spaventoso, ma anche emozionante... scoprire.

[...]

KR - E questo personaggio, Mondrian Kilroy, Tu sei un po' lui?

 

AB - Sì: lui è la parte più morale di me.  Lui è molto rigoroso... Io invece non vomito, ma sto male. Mi è successo, anche di avere disturbi psicosomatici, ma non arrivo a vomitare. Lui invece vomita. È una parte di me.

Poi  lui è vecchio;  c'è questa imitazione della vecchiaia, che io non so ancora di preciso come sarà, ma è l'intuizione di cosa potrà essere.  E... mi piace. Infatti, quando ho aperto questa Associazione, ho pensato a lui e ho usato il suo nome. Perché avere in mente che c'è lui aiuta a non rincoglionire troppo. Mi piace rifarmi a lui. Anche se è un personaggio, non è uno vero.

 

KR - Salinger parlava di Holden come di una persona vera, credeva un po' nei suoi personaggi ,come se fossero veri . Tu  non hai questa fissa? Mondrian Kilroy è un personaggio; parli di lui come se esistesse.

 

AB - In genere no, non c'ho questa follia. Lui è un caso un po' particolare perché sono molto affezionato a lui.  Poi, facendo questa associazione, abbiamo inventato tutta una vita a questo Mondrian Kilroy. Ho  fatto scrivere a dei miei allievi la storia della moglie, perché facciamo delle borse di studio, e le abbiamo intitolate alla moglie di Mondrian Kilroy, che nel libro non c'è, e si chiama Emma Kilroy. Allora un mio allievo ha scritto tutta la storia d'amore tra lei e lui.

Quindi è un personaggio che è un po' è cresciuto nel tempo.

Poi l'ho portato anche a teatro, con questo suo saggio sull'onestà intellettuale, per cui, in questi anni, lui è stato abbastanza presente.  Per questo ogni tanto ne parlo come se fosse uno vero, ma di solito questa forma di follia non ce l'ho.

 

KR - Nella lezione sulle ninfee di Monet, tu credi davvero al discorso sul nulla? Era come sentire davvero la tua voce. Come se quella fosse una tua maniera di vedere il mondo artistico, magari non solo la pittura, ma anche scrivere: arrivare al niente per poi creare qualche cosa.

 

AB - Ma lì sì. Nel gioco ci sono delle cose che io penso. Poi, io sono stato davvero molte ore seduto per terra a vedere la gente che guardava le ninfee di Monet, lì a Parigi. È una cosa che facevo perché andavo a lavorare nei musei, a pensare alle cose mie, e lì andavo molto volentieri perché c'era la musica di Debussy, di solito.

Allora stavo lì e, a furia di stare, ho cominciato a notare il fatto che le persone avevano molte difficoltà a vedere questi che non sono neanche quadri...  cinema. E allora, da lì, un po' tutte le cose che lui dice sono le cose che io pensavo, un po' oziosamente, mentre stavo lì seduto. Però son cose che penso perché questa roba del niente, quando si è dall'altra parte è difficile capirla. Anch'io, quando sono a un concerto o guardo un quadro, non ci penso. Tutti noi invece, quando stiamo dalla parte di chi crea, noi passiamo molto tempo a costruire lo spazio, il paesaggio in cui poi posiamo la nostra storia, e poi il paesaggio non si vede più: tu vedi solo la storia, quando leggi un libro, ma in realtà molta della nostra fatica è fatta per costruire una cosa che non vedranno mai quelli che poi leggono o ascoltano. Si intuisce molto bene, perché si capisce che c'è qualcosa di diverso, di forte tecnicamente. Non riesci a vederlo. D'altra parte facciamo molto per nascondere tutto, però è molto del nostro lavoro. Pensa alle cose che noi non scriviamo: se io scrivo questa scena in un libro, descrivo la tua faccia, le scarpe, la luce,  qualcosa. Ma  sono molte le cose che non scrivo.  E scegliere le cose che non scrivi è la metà del lavoro. Il niente. Poi la gente legge, dice: mi è piaciuto, ma difficilmente vede tecnicamente che tu hai tolto questo, allora ha un'impressione forte e questo basta benissimo così.

Però  c'è un gran lavoro dietro.

 

KR - Si capisce anche l'importanza che dai a  City  dal City Reading con gli Air. Come è nata questa collaborazione?

 

AB - L'idea era quella di leggere dei pezzi di City a teatro: farli leggere da degli attori, perché a me piace il momento in cui una scrittura diventa suono, faccia, mani che si muovono. Mi piace molto, allora studio questa cosa. Ho fatto molte cose, io. Cerco di lavorare con gli altri, per fargliele fare in modi diversi . Una cosa che mi affascina. E lì avevo scelto City, perché City è come un grande frigorifero pieno di storie . Tu, quando hai fame, ne tiri fuori una e sei a posto. E allora lì se ne potevano sfilare via alcune anche senza avere letto il libro, e portarle a teatro. E così, ecco perché le tre storie western, che sono così, sono molto violente e molto tragiche, ma il western è sempre tragico.

 

KR - Non così tanto.

 

AB - Non tanto?... Noi siamo post western

Una cosa importante quando la scrittura diventa suono è l'uso della musica, usarla non usarla, che musica, per accompagnare oppure intrecciare, e anche lì sono molti anni che - è un hobby -  studio i rapporti tra la musica e la voce .

E una volta sono andato a un concerto degli Air che non conoscevo. Mi hanno portato, proprio.  E io son rimasto lì … A me non piace particolarmente la musica elettronica, d gli anni 70 non me ne frega niente, però sentivo questa musica, a Milano in un bellissimo posto, e c'era una forza pazzesca, e c'era una lentezza di fondo. Loro riuscivano a tenere questo arco molto lungo, ma senza perdere l'energia per strada. Questo veramente è uno dei problemi che abbiamo in tutte le cose che facciamo: di mantenere la forza in un arco lungo, perché su misure corte bene o male ce la caviamo tutti. E allora io ero lì, e non avevo sentito mai questa musica, e loro facevano questo. Allora dato che la lettura è lenta - leggere significa leggere lenti -  e ce l'hai quel problema, soprattutto se tu non sei bravissimo, a un certo punto la gente si perde per strada,  allora ho pensato che quella musica tiene su anche quando la voce, l'attore, non ce la farebbe e cascherebbe come un ciclista che quando va piano cade, uguale, allora lì… va piano… va piano… arriva la musica, e lo tiene su.

E in questo senso mi sembrava che fosse l'ideale; in più poi ho scoperto che a loro piaceva il western, andavano matti per Morricone, e allora ho detto:  lavoriamoci su. E loro hanno accettato di farlo, e mi sono trovato bene. Hanno fatto della bella musica e abbiamo fatto anche un disco insieme.  Molto divertente.



Dall’intervista a Rolling Stone del 30 novembre 2007


Come pisciare



Perché non ti piacciono le interviste?

«No, le interviste per me sono una cosa bellissima. Io ho finito un libro così, il libro a me più caro, City, e tutto il finale è in forma di intervista. Tutto quel che mi importava dire in quel pezzo del libro è sotto forma di una lunga intervista radiofonica tra il giornalista e uno dei personaggi».


Perché è il tuo libro preferito?

«Perché quel libro lì potevo farlo solo io. Perché è molto coraggioso, perché è tecnicamente molto difficile. È estremamente generoso, tiene insieme delle cose tanto lontane, ma lo fa bene, secondo me. È costruito in un modo complesso, ma tutto ti fa pensare che funzioni bene. Per cui diciamo che forse è la cosa più difficile che abbia scritto in vita mia e penso di averla scritta bene, molto bene. C’è dietro effettivamente quest’idea che nella complessità vista così, il reale si dischiuda, si sia più autentici. Io su questo non ho dubbi».


E, come dire, cos’è l’autenticità?

«Eh, definire l’autenticità... Non deve essere una menzogna. Se autenticità significa rimanere legati alle origini in senso storico, non so, suonare con gli strumenti originari, mangiare le ricette fatte solo come una volta, scrivere come la civiltà del romanzo ha deciso che bisogna scrivere, ma se è quello, è un’ennesima ideologia, è una menzogna travestita, diciamo. Però, invece, questo appello continuo al nocciolo duro di te stesso, alle origini nel senso non storico, là dove proprio sei tu – c’è la durezza dell’origine, dell’inevitabile, dell’esistenza, la sincerità – questo per me resta il fattore guida. E anche come civiltà, secondo me, noi abbiamo esattamente questo problema, cioè come salvare la zona dell’autentico pur vivendo in un mondo di simulazioni, di copie, di repliche. Ed è bello che sia così, non è che bisogna combatterlo. Che il problema fosse l’attacco al nocciolo duro, guarda, questo lo pensavano già agli inizi del Novecento, che fosse esplosa la forma, l’Uomo senza qualità, cioè che mancasse un centro. Questa roba qui, quest’avventura l’abbiamo passata, è stata emozionante, poeticamente bella, ha prodotto dei grandi capolavori. Un secolo a commuoverci a quest’idea che avessimo perso il nocciolo duro dell’esperienza e quindi che eravamo come delle esplosioni... Ecco, a me questa roba qui pare una cosa bellissima, che è andata, era anche storicamente determinata, dopo la pressione di un secolo con le due peggiori guerre mondiali della storia dell’uomo. Più una guerra fredda. Sotto una pressione del genere in effetti tu ti disintegri. Allora, come insegnava il mio maestro Gianni Vattimo, tendenzialmente vai a cercarti un’identità più debole. Però il mondo in cui ci svegliamo alla mattina noi adesso non è Novecento, non è quel mondo lì. Ha cominciato a essere diverso già dagli anni 90. E in questo mondo qua invece io credo che la categoria di autenticità e di nocciolo persistente sia una categoria che stiamo recuperando, reale, con cui facciamo i conti».



Sul prof. Mondrian Kilroy come personaggio di Lezione ventuno

Dall'intervista a Che tempo che fa del 4 maggio 2008

Ho preso un professore pazzo da un mio libro, che mi piaceva molto, uno strano, che gira sempre in pigiama, va alle conferenze degli altri e vomita, deve sempre andarsene perché non regge, un po’ matto che fa delle lezioni un po’ strane. L’ho preso e l’ho messo nel film a fare una lezione su Beethoven, anzi su una cosa di Beethoven particolare.  



Dall'intervista a Che tempo che fa del 19 ottobre 2008

Era un professore che era in un mio romanzo. Io non ho l’idolatria dei miei personaggi, veramente. Non penso che esistano a prescindere da me. Non penso che mi abbiano dettato loro la loro storia. Non penso niente di questo. Però ci sono un paio di personaggi che mi sono rimasti nel cuore. Lui in quel libro faceva una pippa lunghissima sull’onestà intellettuale e in quel momento per me era la cosa più importante della vita, questo. Quindi lui ha detto quello che per me era la cosa più preziosa. E da allora non è mai cambiato.



Dal Backstage di Lezione ventuno

Naturalmente il professore è pazzo, o comunque è piuttosto strano, per cui la lezione non è una lezione classicamente accademica, universitaria. È più che altro un viaggio della fantasia, dell’intelligenza e anche del sapere, e anche, in un certo modo, della saggezza.  

Baricco a proposito del sito di lancio di City
Intervista del periodo intorno all'uscita di Lezione ventuno



Con un tuo libro hai deciso di evitare altre forme di sponsorizzazione e di promuoverlo sul web. Com'è andato questo esperimento?

È andato bene, però devo dire che quello era proprio la preistoria. Cioè, quando io ho fatto quella cosa lì, era un sito che non era nemmeno un sito su di me, nemmeno della casa editrice, quando peraltro i siti di autori non esistevano ancora perché le case editrici erano proprio agli inizi. E noi abbiamo fatto un sito proprio del libro, dove ci andavano dentro solo quelli che avevano letto il libro o volevano leggerlo e parlarne, un po' in tutto il mondo.

Quindi era abbastanza avanzata come cosa. A me era piaciuto molto; mi aveva divertito molto. Erano anche altri tempi non è che poi avevi un ritorno commerciale. I numeri erano molto più piccoli. Però io da un giorno all'altro ho avuto la possibilità di leggere cose che venivano dai lettori. Nel giro di due anni, quando sono uscite le traduzioni di questo libro, c'erano i polacchi, i messicani. Per quei tempi là era una cosa che faceva impressione perché la comunicazione era molto più lenta a quei tempi là. Era poi il 2000, la preistoria.

E anche com'era fatto il sito era la preistoria, se uno lo va a vedere. Gli schemi mentali erano ancora tutti vecchi. Però nel suo uso è un'esperienza che mi era parsa buona. Perché quello era un libro molto particolare e mi piaceva farlo così.

Per gli altri libri poi cominciava ad esserci l'ondata; molti facevano queste cose qui.  E allora, non so perché, ma non mi è venuto più da replicare.



Dalla serata del 29 novembre 2009 dedicata a Emmaus al Teatro Valle



1.7.52

Un desiderio che ho scoperto per strada è: che alla gente piaccia qualcosa che io faccio, non sempre la stessa cosa, ecco, per favore. E difatti se uno segue un po’ i miei libri scopre un po’ questa forma di irritazione per cui, se qualcosa è piaciuto, io tendenzialmente poi, dopo ne faccio una che è il contrario. Dopo Seta, per esempio, che era questo libretto, lineare, piccolo, senza asperità, strutturali né linguistiche particolari (avrei dovuto scriverne altri cinque se volevo fare quello, se volevo solo prendere soldi nella vita), e il libro dopo è forse il più complesso che ho scritto come struttura. E lì c’è proprio una sovrabbondanza di irritazione proprio. Mi ricordo che le prime dieci pagine del libro (non so se qualcuno di voi l’ha letto. È il mio miglior libro, quindi leggetelo) sono tre storie una di fila all’altra senza pause, proprio una schiacciata contro l’altra, senza che sia data nessuna indicazione al lettore per orientarsi. Cioè il tavolo è veramente scomodo, proprio scomodo. Troppo scomodo. A me faceva godere da morire. Però c’è anche proprio quel fastidio lì. Io mi ricordo che il mio editore di allora, un po’cautamente (perché dopo che incassi una certa cifra le osservazioni te le fanno molto meno) però molto cautamente mi ha detto: «ma se potessimo isolarle queste tre storie, cioè mettere solo uno spazio bianco tra la prima la seconda e la terza così almeno si orientano un po’ meglio… sanno che è cambiata la storia perché se no…» E mi ricordo che ho detto «ma neanche per sogno…»

Risultato: abbiamo venduto un quinto. Però mi ricordo, mi piaceva così, lo volevo così. L’ho cercato così.

1.17

Io sono piuttosto razionale nella costruzione dei libri. Sicuramente ci sono degli scrittori più liberi, diciamo. Io anche quando scrivevo Castelli di rabbia, ma avevo esattamente in mente lo schema, la cosa… Sembrano tutti sparati, esplosi, ma è un’esplosione più o meno controllata, comunque che regolavo. Anzi, è una delle cose che mi piace del mio mestiere: l’aspetto costruttivo, da architetto proprio: tac tac tac. Quindi una certa forma di controllo devi avere.

Poi non scrivo da ubriaco. Cioè, quando scrivo sono di quelli lì che… Proprio un farmacista.

Quando scrivo di notte poi rileggo al mattino perché già la notte mi dà un po’ di sospetto che ci sia un po’ di…

Quindi in realtà sono molto… c’ho tutti dei numeri sotto, non so come dire. E’ una roba piuttosto razionale.

E sì, naturalmente Emmaus è differente. Differente da tutta la stagione Castelli di rabbia, Oceano mare…

È che, grazie a dio, passa il tempo e, secondo me, cambia l’idea di bellezza. Non è una roba di poetica, cioè non è una convinzione teorica. È che ti incomincia a piacere una certa linea, una certa… Ed è anche possibile che più uno diventa vecchio, più apprezzi il rigore, diciamo. Diciamo, l’essenzialità… Però soprattutto che godi a vedere una forma diversa. Io ho iniziato a scrivere per… cioè la cosa con cui sono arrivato nel mondo dei libri era questa idea di libri che avessero un’energia rutilante, no? Sia nella somma di storie, sia nelle molte scritture messe insieme. Sarebbe stato impensabile per me scrivere un libro con una sola scrittura, come è successo con Emmaus. Quando l’ho fatto con Seta mi sembrava infatti un libro inutile, perché scritto con una sola scrittura, bleah. Perché allora era quello che mi faceva piacere, proprio.

Quando ho scritto City ho cercato di mettere le due cose insieme, perché già lì si affacciava un po’ l’idea che quando pieghi un pezzo di ferro, e lo pieghi, e questo è bellissimo, non è che devi fare la cancellata no?

Allora City è il libro in cui queste due cose sono più una dentro l’altra.

E, non so, ti si modifica nel tempo l’idea di bellezza. E la cosa che poi è più difficile fare è rimanere fedeli all’idea di bellezza che hai in quel momento. Perché magari tu non lo sai fare il pezzo di ferro semplicemente ritorto cosi. Cioè devi imparare a farlo. E allora per me questo libro è importante perché mi sembra che avevo in testa una diversa bellezza e l’ho cercata e sono riuscito a farlo: ho preso il pezzo di ferro Ma portando dietro credo gran parte del mondo delle cancellate che facevo prima, ecco, diciamo.

Penso.

E poi immagino che per i miei lettori sia un tipo di approccio di verso. Magari potresti provare a rileggere Emmaus tra una ventina d’anni.

 

1.23.15

Uno fa le cose che deve fare, non c’è un altro modo di fare il mio mestiere che fare le cose che in quel momento siano belle e cercare di farle quando sei in grado di farle.

Naturalmente non sei mai in gradi di farle, ma il mondo che avevo in testa io quando ho scritto Castelli di rabbia, l’ho poi stretto quando ho scritto City. Anni. Però Castelli di Rabbia è un libro forte comunque. C’era già molto di quello che avevo in testa. E forse anche qualcosa di più che poi non riuscito più a far dopo perché il primo libro ha sempre una ricchezza, un’effervescenza particolare.

E posso solo dirti che sì, può darsi, e che se io metto Emmaus lì sulla mia scrivania e lo guardo, invece penso che è bello. È forte e tutto quello che c’è, c’è davvero, diciamo. Che non c’è spreco. Le linee (ci sono delle linee per andare dal punto A al punto B), sono delle linee che amo. Una volta forse avrei fatto linee diverse, invece, quel modo di disegnare che c’è in questo libro è un modo che mi piace molto adesso. Dove riesco a trovare… io trovo una forza in cui credo, diciamo. E quindi sono sereno e tranquillo. Però naturalmente, come moltissimi miei libri sono apparsi a molti esageratamente… non molti si sono portati nel cuore Taltomar, volevo dirti, questo.



Dalla conversazione con Marino Sinibaldi del 16 aprile 2010 per Radio3 InFestival


MS: Questa domanda, in parte Baricco ha già risposto, ma i suoi libri sono uno diverso dall’altro, tutti questi libri sono, anche enormemente, uno diverso dall’altro, c’è per esempio per chi volesse analizzarlo, il caso di Seta e City, peraltro con questi titoli che sembravano un po’ ironicamente citarsi, Seta mi sembra è del novantasei, City sarà uno o due anni dopo …

AB: Novantanove

MS: Ah, tre anni dopo. Il primo è un libro esile, con questa piccola storia, - esile intendo solo tipograficamente, per così dire – ma anche con una singola storia; City è un libro bulimico, allora cosa c’è lì? O è il normale disturbo alimentare contemporaneo, che penso sia questo alternarsi di bulimia e anoressia, che sembra una delle patologie del nostro tempo; c’è un’inquietudine? c’è il caso? c’è un’intenzione,  un progetto,  di costruire una bibliografia fatta proprio di libri uno così diverso dall’altro?

AB: Ci son diverse ragioni., A me piace molto ‘sta storia che i miei libri son diversi, e invece mi viene spesso rivoltata contro…

MS: Poi però uno non si può lamentare se i critici non ce la fanno a sistemare Baricco in una…

AB: Ah no, infatti non mi lamento.

MS: Lamento no ma insomma…

AB: Diciamo ci son diverse ragioni. Una, che mi faceva impazzire Kubrick – che non ha mai fatto un film uguale all’altro – ed è considerato il più grande. E quindi mi sembrava comunque un’acrobazia che, niente, era mi sembrava fantastica: dedicare una vita a questa acrobazia. Poi, perché quando io esco da un libro, come da gran parte delle cose della mia vita, vissute con grande intensità, ne ho come una nausea e quindi istintivamente cerco un libro da scrivere dopo che sia molto lontano da quello che ho appena fatto. E poi, credo che l’ultima cosa sia un tratto barbaro, per usare un linguaggio mio, cioè io fin dall’inizio non ho mai pensato che fosse un valore l’unità, la compattezza dell’autore come sguardo monolitico e di un certo tipo. Non c’è unità stilistica nemmeno all’interno di ciascun libro. A parte Seta che è scritto abbastanza con la stessa scrittura e Emmaus che è scritto integralmente con una sola scrittura, tutti i miei libri son scritti con almeno due scritture diverse, per cui perfino all’interno di un libro non c’è un’unità stilistica, certo che poi il critico fatica, deve aver proprio tanta voglia…

MS: Per cui se la cava con un…

AB: Eh beh, dice quello che vuole.

E questo, perché? Mi sono interrogato spesso, ma lì sicuramente era già un tratto barbarico che evidentemente era già filtrato in me fin da quando avevo trent’anni, cioè quando ho iniziato, cioè uno dei tratti barbarici è quello appunto di non riconoscere come valore la coerenza e di riconoscere come valore piuttosto una discoerenza che produce però dinamica, movimento, temperatura, no? Naturalmente invece la letteratura alta, nel tempo, ha sempre poggiato molto invece sull’unità stilistica, sulla compattezza. Noi, ancora oggi, un po’ per inerzia, consideriamo i grandissimi del nostro tempo scrittori che hanno una voce monolitica in un modo che a me sembra disarmante. Per  dire, il più grande, Roth, insomma Roth c’ha una scrittura, fantastica (infatti anch’io lo registro fra i più grandi del nostro tempo), ma è indubbio che quando dobbiamo dire i più grandi in maniera prudenziale andiamo a beccare quelli molto facilmente riconoscibili, cioè che fan tutte le figurine lunghe lunghe lunghe lunghe sottili sottili sottili e fanno quello per tutta la vita. Quindi, evidentemente ci tranquillizza, ma per me non è mai stato un obiettivo quello, un risultato, ogni tanto si rende necessario. In Emmaus, che è un libro che io ho immaginato come un pugno – non  nel senso un pugno dato al lettore – ma fisicamente, come una mano chiusa, diciamo, anche un po’ respingente, ma soprattutto come chiusa – immobile quasi – allora lì c’è una ragione quasi estetica. Oppure sto invecchiando e i tratti barbarici mi stanno abbandonando, non lo so ma insomma, però in tutto il resto della mia strada è stato per me un piacere. Io, quando ho scritto Seta – che era un libro che io ho scritto per me, convinto che non lo avrebbe letto nessuno perché lo trovavo di una noia pazzesca, perché c’era una sola scrittura, narrazione lineare, eran tutte le cose che a me non piacevano, però per me, a scopi curativi, volevo scriverlo, così… e che ha avuto un successo al di là di qualsiasi previsione e ancora adesso siamo lì a cercare di spiegarcelo – come a uscire da questo lutto, ho sparato fuori City. In City credo che ci siano sette otto scritture diverse. Sono anche quattro libri tutti lì, ma non è una forma di snobberia o di cerebralismo e nemmeno una forma di persecuzione sadica per il mio editore – che quando ha visto arrivare ‘sto libro ha detto: “nooo” – ché si aspettava poi tre o quattro Seta, naturalmente. No, è che proprio mi piaceva da morire, cioè, a me. City ancora adesso è il libro che preferisco tra quelli che ho scritto, mi sembra fantastico quel rimbalzare continuo, è il mio gusto personale ecco, che ogni tanto incontra il gusto del pubblico…

MS: Comunque sono anche tipologie… Una volta Isaiah Berlin, un grande storico delle idee – mi  sembra per parlare di Tolstoj e Dostoevskij – citava un frammento, credo di Archiloco, che dice: “molte cose sa la volpe, l’istrice, una sola ma grande”. Cioè ci sono degli scrittori volpe e degli scrittori istrice, questa potrebbe essere la…

AB: Sì, volpe, eccomi qua

MS: Istrice però, eccezionalmente: in Emmaus, istrice.

AB: Si, per una volta, si

MS: Il riccio o l’istrice insomma. A proposito di libri, una volta Alessandro Baricco ha detto che, se uno è bravo e fortunato, nella vita scrive uno o due grandi libri. Siccome so che ha l’aspirazione e anche l’ambizione di essere uno scrittore di quel livello, poi uno li ha scritti questi uno o due grandi libri? li segue sempre?, se ne accorge quando arriva questo uno o due che, in mezzo a questa dozzina, saranno i grandi libri di Alessandro Baricco? sarà City, per quello che ora…

AB: No, penso che uno ha qualche probabilità di accorgersene, se ha il tempo. Se ha la fortuna di vivere molto, dopo che li ha scritti, diciamo. Cioè, ho come questa impressione che fra dieci quindici anni avrò un’idea di quello che ho fatto. Adesso incomincia vagamente a comporsi: riesco a capire molto di più. Io ho scritto per dieci anni senza capire minimamente cosa facevo, in maniera molto istintiva. Poi, adesso, si stanno un po’ ricomponendo le tessere. Secondo me, alla fine, noi siamo abbastanza in grado di capirlo, se abbiamo la fortuna di vivere a lungo, ecco.


Baricco a Pordenonelegge 17 settembre 2011 


da fvgnotizie.it - Elisa Marini

[...]E così del nuovo libro non si lascia sfuggire molto, dice solo che è ambientato a Londra e che ha come protagonista un certo Mr. Gwyinn, ma che poi ad un certo punto verrà un altro personaggio a portargli via la scena.

“E’ una storia leggera, che si lascia raccontare facilmente. Non come certi altri miei libri, come ad esempio City, che sembra un’esplosione. In realtà io quell’esplosione la controllo perfettamente, ne sono l’architetto. Ma l’impressione che ne riceve il lettore è di una realtà che scappa, che sfugge”. [...]