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Morire e dare nomi

Un destino scritto nella terra

Le dicciotto curve


 
Morire e dare nomi

E importante vedere come la gente sceglie i nomi. Morire e dare nomi - non si fa altro di sincero,

probabilmente, per il tutto il tempo che si campa.

[...]

Quindi, dato che era un maschilista vergognoso - come tutti, ai tempi - non aveva dubbi: l'automobile era donna. Così quella che inventò la chiamò Itala.

Come si è detto, crepare e dare nomi, non si fa altro di sincero, probabilmente, per tutto il tempo che si campa.

 
Un destino scritto nella terra

Avevano fatto a piedi da casa al bivio per Rabello, e adesso aspettavano lì. 

- Dove lo porti? —, aveva chiesto la mamma. 

- Cose da uomini —, aveva risposto Libero Parri, e da lì Ultimo non si era fatto più domande perché se hai cinque anni e tuo padre ti porta con sé, in quel modo, sei felice e basta. Per cui aveva corricchiato dietro di lui fino al bivio per Rabello. L'aveva fatto senza sapere che per infinite volte, da grande, avrebbe rivisto quella immagine, proprio quella: la sagoma massiccia del padre che camminava a grandi passi davanti a lui, contro il volo della nebbia mattutina, senza mai voltarsi, né per aspettarlo né per controllare che ci fosse ancora. In quella severità, e in quella assenza totale di dubbi, vi era quanto suo padre gli aveva insegnato dell'essere padri: che è saper camminare, senza mai voltarsi. Camminare il passo lungo degli adulti, senza pietà, ma un passo limpido e regolare, perché tuo figlio possa capirlo e starci attaccato, nonostante il suo passo bambino. E farlo senza mai voltarsi, se ne avrai la forza: perché lui sappia che non si perderà, e che camminare insieme è un destino di cui non bisogna mai dubitare, giacché è scritto nella terra.

[...]

Camminavano lenti, respirando nebbia. Con la malinconia che è il regalo ultimo del vino, Libero Parri iniziò a parlare, la testa bassa, pescando da certi suoi ricordi. Sentiva il passo del figlio, accanto, e parlava perché era un modo di far durare quel momento e quella vicinanza. Gli venne da raccontare di sua madre, che Ultimo non aveva mai visto: il modo in cui spaccava le noci, e le strane idee che aveva sul Giudizio Universale. Il giorno in cui era andata a ripescare il marito nel fiume, e quello in cui aveva deciso di non dormire più. Raccontò che c'erano allora due strade, per tornare a casa, ma solo in una si sentiva il profumo di more, sempre, anche d'inverno. 

Disse che era la più lunga. E che suo padre prendeva sempre quella, anche quando era stanco, anche quando era vinto. Spiegò che nessuno deve credere di essere solo, perché in ciascuno vive il sangue di coloro che l'hanno generato, ed è una cosa che va indietro fino alla notte dei tempi. Così siamo solo la curva di un fiume, che viene da lontano e non si fermerà dopo di noi.

Adesso, ad esempio, è facile dire le automobili, e pensare che sia nato tutto così, d'un colpo. Ma il fratello di suo padre non aveva lavorato la terra, e prima di lui, la donna che lo aveva generato se ne era scappata con un prestigiatore che ancora tutti ricordavano perché aveva portato in paese la prima bicicletta. Alle volte non facciamo altro che finire lavori lasciati a metà. E iniziare lavori che altri finiranno per noi. Lo diceva continuando a camminare, anche se ormai da un po' aveva smesso di capire dove stava andando. Portato dai suoi passi involontari aveva preso a girare intorno a un isolato, perché una forma di inerzia prudente, forse generata dalla nebbia, l'aveva inclinato a rifiutare, a un certo punto, l'attraversamento della strada. Così, senza neanche accorgersene, aveva girato a sinistra, seguendo la sponda dei palazzi, e da lì, continuando a girare a sinistra, era come se avesse trovato una sua corsia, un riparo per le sue parole. Quando finirono il primo giro, Ultimo si ritrovò davanti a una vetrina che aveva già visto, e che mai si sarebbe aspettato di rivedere in vita sua. Ne rimase stupefatto. Avevano camminato senza pensare, come fanno quelli che si perdono: ma la città li aveva riportati lì, come un cane pastore. Mentre suo padre tirava diritto, continuando a recitare il rosario del sangue e della terra, lui, seguendolo, cercò di capire cosa, precisamente, era successo, e perché un'inezia del genere lo aveva turbato. Forse era la nebbia, o le storie di suo padre, ma gli venne da pensare che se avessero proseguito così, per ore, alla fine sarebbero scomparsi. Sarebbero stati deglutiti dai loro passi. Perché di solito camminare è sommare dei passi, ma quello che loro due stavano facendo, lì, era sottrarli, in un calcolo esatto che periodicamente riportava allo zero. Pensò alla purezza, indiscutibile, di quel cammino alla rovescia. E per la prima volta, seppur in modo confuso, intuì che ogni movimento tende all'immobilità, e che bello è solo l'andare che conduce a se stesso.

Qualche anno dopo, sul rettilineo di una pista d'atterraggio, in terra straniera, Ultimo avrebbe fatto di quell'intuizione il disegno consapevole della sua vita. Per questo quella nebbia, e quella città, assurdamente ordinata, non gli riuscì di dimenticarle mai. Una volta, quando ormai era diventato un uomo solo, pensò perfino di tornarci: ma poi andò diversamente, e fu meglio così. Gli sarebbe piaciuto ritrovare il punto del marciapiedi in cui suo padre, dopo quaranta minuti di cammino, per un totale di undici giri dell'isolato, si era bloccato di colpo, e alzando la testa aveva fatto una domanda meravigliosa:

— Dove cazzo siamo finiti? 

Non c'era risposta, a quella domanda, raccontò una volta Ultimo a Elizaveta. E questa era la cosa meravigliosa. Dov'è finito uno che da un'ora fa il giro dell'isolato? Pensaci. Non c'è risposta. 

Elizaveta pensò che non c'era risposta mai, perché circolare è ogni cammino, e troppo fitta la nebbia della nostra paura.

Le diciotto curve

Senti, Elizaveta. Vuoi provare a capirmi?

Sì. 

Allora sta' ad ascoltarmi.

Sì. 

Negli ovali corrono i cavalli. Le automobili vanno sulle strade e le strade vanno in mezzo al mondo. E infinite sono le curve che possono fare. Ce l'hai nella testa questa meraviglia?

Sì. 

Adesso toglila via dal mondo. Dagli alberi contro cui si va a sbattere, dalla gente che attraversa la strada, dagli incroci che nessuno può stare a controllare, dai carretti che vanno e vengono, dalla polvere e dal casino. Prendi solo la meraviglia, il gesto pulito che fende lo spazio e il tempo, la mano dell'uomo che sul volante ridisegna la traccia della strada, e la assolve. E mettila in mezzo al nulla. Ce l'hai?

Sì. 

Molte curve, Elizaveta, tutte quelle che ho visto nella mia vita.

Il profilo del mondo. In mezzo al nulla.

Sì. 

Accendi il motore e parti. E gira. Gira fino a quando ogni curva scompare in un unico gesto che inizia e finisce nello stesso punto, e scompare dentro a se stesso. Allora ti sembrerà un cerchio perfetto, chiuso e perfetto. Tutta la tua vita in quel cerchio. 

Ma è nella tua testa, il cerchio, non nella realtà. C'è solo dentro di te.

[...]

Scrivevo tutto per Ultimo, questo lo so. Dimenticavo il mio diario dappertutto, ogni giorno, lui leggeva e lo rimetteva allo stesso posto. Non mi ha mai detto niente. Ma io sapevo che leggeva. Avevamo quelle due giovinezze recluse, quella specie di esilio insensato, e l'unica cosa era immaginare tutto quello che non avevamo. Storie. Lui aveva la sua pista, nel nulla, fatta con tutte le curve che aveva rubato al mondo. Io scrivevo per lui. Per me. Chissà. Eravamo lontani da tutto.

 Troppo lontani.  

Solo adesso so che è una delle cose più belle che ho fatto. 

Quei mesi con Ultimo. A portare in giro pianoforti. 

E le sere a scrivere per lui. Ogni tanto riscrivevo le storie che mi aveva raccontato lui. Mi piaceva farlo diventare un personaggio da romanzo, un'invenzione. Volevo che sapesse che era una persona speciale, di quelle che si leggono nei libri, di quelle che lui leggeva nei fumetti. Un eroe. Ecco, forse volevo sapesse che lui era un eroe. 

Dirglielo, questo mai.

[...]

Le raccontai tutta la mia storia e poi le chiesi dove potevo trovare Ultimo. Lei mi porse una busta, grande, bianca. Ultimo ha lasciato questo per lei, mi disse. 

Nella busta c'era un grande foglio, piegato tante volte. Grande come una mappa. Sulla carta grigia, in inchiostro di china rosso, c'era disegnato il tracciato di un circuito. Diciotto curve.

Si muoveva nello spazio con un'eleganza inequivocabile. Il segno era pulito e netto, i raggi delle curve esatti. E nel grigio intorno, fìtta fìtta, la minuta grafia di Ultimo raccontava ogni singolo metro di quella strada. L'aveva promesso: c'era tutta la sua vita. 

Poi non c'era nulla, per me, una riga, un messaggio, niente.

Solo il circuito. 

E riuscito a costruirlo? chiesi. 

Ma Florence non rispose.

[...]

Mio fratello sorride e mi dice se lo voglio sapere un segreto in mezzo a questo silenzio e a questa solitudine, E io faccio sì con la testa, che lo voglio sapere un segreto in mezzo a questo silenzio e a questa solitudine, così mio fratello mi dice un segreto in mezzo a questo silenzio e a questa solitudine, Mi dice un segreto per disperdere questo silenzio e questa solitudine, me lo dice a bassa voce, chinandosi un po' su di me. La vedi questa pista, mi chiede. 

E' nostra, dice. 

Questa pista è nostra, dice, perché io l'ho comprata, Questa pista di Sinnington, Inghilterra, adesso è nostra perché io l'ho comprata per 70.000 sterline, dice, Questa pista di Sinnington, Inghilterra, adesso è nostra, dice, perché io l'ho comprata per 70.000 sterline insieme a tutta la terra che vedi intorno, Ho comprato per 70.000 sterline questa pista di Sinnington, Inghilterra, e tutta la terra che vedi intorno, dice, perché non è una pista d'aviazione, questa, e non è terra quella che vedi tutt'intorno, fino agli alberi, laggiù.

E il mio circuito, dice. 

E non ci saranno più aerei ma soltanto automobili, dice, Non decolleranno più aerei da questa pista ma correranno automobili su questo rettilineo, Non decolleranno più aerei su questa pista ma correranno automobili divorando questo rettilineo, Non decolleranno più aerei perché correranno automobili divorando questo rettilineo e poi girando per diciotto volte in mezzo alla campagna, prima divorando questo rettilineo e poi correndo per diciotto curve in mezzo alla campagna fino a ritornare su questo rettilineo. Il mio circuito, dice. 

Le vedi, mi chiede, Le vedi le automobili che corrono in mezzo alla campagna, mi chiede, Le vedi le automobili che corrono morbide in mezzo alla campagna e si allontanano per poi ritornare, mi chiede, Le vedi che sfrecciano su questo rettilineo e poi piegano in mezzo alla campagna per

correre morbide su diciotto curve fino a ritornare qui, mi chiede, Le vedi fiammanti le automobili sfrecciare nella polvere di questo rettilineo per poi piegare a sinistra nella campagna dove disegnano in fretta diciotto curve che a poco a poco le portano a tornare esattamente qui, mi chiede. Allora io guardo.

[...]

— Buono, davvero. Le posso versare ancora del vino? 

— Penso proprio di sì —, disse la donna, prendendo il piatto e alzandosi. - Le porto della frutta -, disse. E andando verso la cucina iniziò a dire che adesso volevano fare le corse nei circuiti, su quelle stupide piste fatte apposta per le automobili da corsa. Continuò a dire delle cose mentre era in cucina, e quando uscì con la frutta chiese all'uomo se non gli sembrava una tristezza. 

— Cosa? 

— Questa storia dei circuiti e delle gare d'automobili. L'uomo sorrise strano. 

— Non c'è più poesia, eroismo, niente —, disse la donna. —

Fanno mille volte lo stesso giro, come degli animali instupiditi. 

L'uomo disse che a pensarci bene non era poi così stupido. 

— Scherza? -, disse la donna, tornando a sedersi davanti a lui. 

— Sempre a fare le stesse curve? Dove sta il difficile? E poi senza il mondo intorno, la gente, quella vera, quella uscita di casa con ancora in mano lo strofinaccio o in braccio il neonato... Sono cose false, quei circuiti, sono false, ecco, non è mica roba vera. 

— In che senso? 

— Come in che senso? non sono strade vere, sono una cosa che sta solo nella testa di quelli che la fanno, le strade vere sono quelle, non crede? -, e indicò con la testa verso i fari che spiavano il mare della campagna. 

— Sì, è possibile che sia così -, disse l'uomo.

[...]

EPILOGO 

Poiché se l'era promesso, Elizaveta Seller, vedova Zarubin, cercò per anni un circuito di diciotto curve, costruito nel nulla e probabilmente mai usato. Lo conosceva a memoria e avrebbe potuto disegnarlo, con precisione, in qualsiasi momento e dovunque: lo faceva, ogni tanto, oziosamente, sul retro di lettere inutili, o sull'ultima pagina di libri che non finiva.

[...]

Elizaveta Seller cercò per diciannove anni, tre mesi e dodici giorni. Poi un dispaccio dall'Inghilterra le comunicò che un circuito di diciotto curve, in tutto corrispondente al disegno  da lei fornito, giaceva semidistrutto tra le paludi di Sinnington, un piccolo centro dello Yorkshire. C'erano allegate delle foto aeree. Elizaveta non le volle nemmeno guardare. Partì il giorno stesso, con sette bauli, tre persone di servitù, una bellissima ragazza che si chiamava Aurora, e un ragazzino egiziano.

[...]

L'ingegnere disse che alcune curve erano rialzate, e che per lunghi tratti il circuito viaggiava ormai sotto il livello degli stagni, ma sufficientemente riconoscibile. Indicò una striscia bianca che disegnava un'ampia curva morbida e chiarì che lì avevano provato con una pavimentazione di pietre e ghiaia, una tecnica che risaliva agli anni venti. Era per risolvere il problema della polvere. Disse che da un punto di vista strettamente  tecnico, doveva essere una pista inguidabile. Troppe curve, non c'era un vero ritmo, e alcuni tratti sembravano francamente pericolosi. Forse con le automobili di oggi si potrebbe fare, disse, ma con le macchine di allora non poteva funzionare. Aggiunse che lui aveva cercato negli archivi del giornale, ma proprio non c'era prova che si fosse mai fatta una gara, su quel circuito.

[...]

Un giorno, Strauss, l'investigatore, le disse che almeno a lui, che l'aveva trovato, poteva dire perché le interessasse tanto quel groviglio assurdo di curve inguidabili. 

- Non è un circuito, è una vita -, si lasciò scappare lei.

Strauss non disponeva né dell'immaginazione né dell'ottimismo necessari a dedurne qualcosa.

[...]

Il 7 maggio 1969, l'ingegner Bloom si presentò al suo tavolo, durante la prima colazione, e le comunicò, non senza una punta di acredine, che il circuito era pronto. Elizaveta Seller stava imburrando una fetta di pane tostato. Posò il coltello e alzò lo sguardo sull'ingegnere. Le fece tenerezza, perché aveva lavorato come un mulo per costruire qualcosa che non avrebbe mai saputo cos'era.

[...]

Aveva avuto così tanto tempo per preparare quel giorno che non aveva trascurato nessun dettaglio. Naturalmente non pensava di guidarla lei, la macchina, ma anche l'idea di affidarla al suo abituale chauffeur le era sembrata inadeguata. Per un po' aveva pensato a un vero pilota, poi si era immaginata i commenti inutili sulla stranezza della pista. Alla fine aveva optato per un collaudatore. L'aveva chiesto giovane e, possibilmente, non brutto.

Strauss gliel'aveva trovato. Quanto alla macchina, sapeva che non poteva sceglierne una qualunque. Quelle moderne le aveva scartate d'istinto, certa che, da un punto di vista per così dire stilistico, non sarebbero state appropriate. Cercò di ricordarsi se Ultimo aveva mai fatto trapelare una qualche preferenza per un certo particolare modello, ma la verità è che lui le automobili quasi non le vedeva, considerandole un futile corollario alla bellezza delle strade. Così, alla fine, optò per la Jaguar XK120. 

Era una due posti scoperta e magnifica che lei aveva comprato ne1950.

[...]

Elizaveta Seller chiuse gli occhi. Cercò di immaginarsi Ultimo, seduto al volante, un giorno di tanti anni prima, alla partenza del suo circuito. Il motore in folle, nel silenzio della campagna. Nessun testimone, neanche un'anima. Solo lui e quelle diciotto curve, distillato di tutta una vita.

- Ciao, Ultimo -, pensò. 

Ci ho messo un po', ma eccomi. Ho studiato. Il circuito lo conosco a memoria e tutte le note che hai scritto, per ogni curva, le potrei recitare. Andrà tutto bene, e io mi perderò nella tua vita, come volevi tu. C'è il sole. E nessuna probabilità di sbagliare. 

Riaprì gli occhi. 

- Adesso possiamo andare —, disse. 

Non ci fu preludio, e nemmeno un vero proprio inizio: l'auto fu subito in corsa, a quella velocità nella quale la larghezza della pista si riduce a un nervo teso da tenere stretto in mezzo alle ruote. Al termine del rettilineo Elizaveta Seller pensò che stavafinendo tutto prima di cominciare, e che si sarebbero schiantati nella campagna, come un proiettile impazzito. Era già morta quando la Jaguar trovò, miracolosamente, una lunga curva sulla sinistra, stretta e lunga. Ci si buttò dentro ed Elizaveta a mala pena riuscì a capire che si stava salvando nella pancia della U di Ultimo, come l'aveva scritta, in rosso, Florence, sulla scatola di cartone dei segreti del suo bambino. In verità si era immaginata qualcosa di più pacato. Come l'intellettuale piacere di veder

combaciare un oggetto e la sua descrizione. Non aveva pensato alla velocità. Ora era tutto fulminante, rapido e brutale, caldissimo, e pericoloso. Non c'era ragionamento, era solo emozione.

Senza quasi respirare precipitò da una curva all'altra, come in un abisso, scoprendo che non stava leggendo la vita di Ultimo, ma la stava vivendo, a ritmo forsennato. C'era tutto quello che lei sapeva, ma l'automobile andava più veloce del suo cervello e

sempre arrivava prima, così che tutto era sorpresa, e frustata al cuore. Salì i tornanti di Colle Tarso come se fossero i passi di un tango brutale, scese stupefatta sul collo di una donna bellissima e come un lungo respiro percorse la morbida curva della fronte

di un vecchio matematico che cercava suo figlio. Senza accorgersene si trovò sulla cunetta di Piassebene, urlando nel salto, e capendo cosa vuole dire avere la freddezza di urlare il proprio nome quando la terra ti spara via nel cielo. Si riposò nel lungo rettilineo che aveva portato Ultimo all'ospedale, da suo padre, e che in verità, per un attimo, le diede l'effettiva impressione che adesso tutto sarebbe stato sotto controllo. Ma tornò a mozzarle il fiato la esse morbida e allungata del profilo di una forchetta che Ultimo aveva salvato dal disastro di una ritirata, e scelto come unica curva di tutta una guerra. Bruciò curve che erano dorsi di animali, e angoli di sorriso, e tramonti. Divenne ansa del fiume e orma sul cuscino, e fu per un attimo la donna che viaggiava nascosta, nella prima automobile che quel bambino avesse mai visto. Risalì la chiglia di una nave, la schiena di una luna americana e la pancia di una vela al vento del Tamigi. Fu proiettile e sparo, a una velocità impensabile, finché si trovò di fronte l'ultima curva, quella che nel disegno era spiegata con un'unica, semplice parola: Elizaveta. Si era chiesta tante volte cosa c'entrasse lei con quella curva così ordinata, e impersonale. Fece appena in tempo a capire, con gli occhi, quello che d'improvviso si sentì precipitare addosso, con l'automobile che saliva sul morbido muro e sparata dalla forza centrifuga roteava l'amabile acrobazia di quattro ruote gommate appese a una curva parabolica. Elizaveta sentì sparire ogni peso, e si accorse che stava volando senza staccarsi da terra. Era impossibile respirare. Ma lei disse piano, e sorridendo: 

- Che stronzo. 

Poi sentì la curva sciogliersi nel rettilineo da cui erano partiti, con una morbidezza che nella vita non era nemmeno pensabile. Un attimo ed era di nuovo nel respiro mozzato di Ultimo, su quella pista d'aerei, sotto le botte degli aguzzini, in mezzo ai prigionieri, dove tutto era ricominciato. Non si mosse. Lasciò che l'automobile di nuovo puntasse al disastro per trovare alla fine il conforto di una curva ad U, dipinta in rosso, su una sca

tola di cartone. 

Continuò a girare, l'automobile, per un tempo che nessuna lancetta misurò mai. Elizaveta non contò quante volte vide il rettilineo d'arrivo, ma si accorse che a poco a poco quel che Ultimo aveva cercato spesso di spiegarle, stava succedendo. Sentì ogni curva sciogliersi gradualmente nell'ordine illogico di un unico gesto, e trovò nella propria mente il cerchio che non esisteva se non per lei. Nel cuore della velocità, trovò la perfezione di un semplice anello. Pensò allora all'infinito caos di ogni vita, e all'arte sopraffina delle cose che sanno pronunciarlo in un'unica figura, compiuta. E capì cosa ci commuove nei libri, nello sguardo dei bambini e negli alberi solitari, in mezzo alla campagna. Quando si accorse di essere scesa nel segreto di quel disegno, chiuse gli occhi, vide gli occhi di Ultimo, sorrise. Poi appoggiò una mano sul braccio del ragazzo che guidava. L'automobile rallentò come se si fosse staccata dall'invisibile forza che fin lì l'aveva trascinata. Percorse sulla spinta ancora due curve, che tornarono, in quella antica lentezza, a sembrare curve. Poi, giunta sul rettilineo, la macchina si fermò.