shatzy

percorsi>pathwork>shatzy

 

Le storie di Shatzy


La tavola calda sulla Statale 16
Eva Braun
Walt Disney
Il Salone della Casa Ideale
Gli altri sono le strade io sono una piazza
La virtù dei mediocri e la teoria dei fiumi
Ancora sulla la teoria dei fiumi

patchwork

La tavola calda sulla Statale 16


- Una volta ero in una tavola calda, sulla Statale I6, appena fuori città, e mi sono fermata in una tavola calda, sono entrata e mi son messa in coda, alla cassa c’era un vietnamita, non capiva quasi niente, così non si andava avanti, gli dicevano un hamburger e lui diceva Cosa?, forse era il primo giorno di lavoro, non so, così mi son messa a guardare intorno, dentro la tavola calda, c’erano cinque o sei tavoli, e tutta la gente che mangiava, tante facce diverse e ognuno con qualcosa di diverso davanti, la cotoletta, il panino, il chili, mangiavano tutti, e ognuno era vestito esattamente come aveva voluto vestirsi, si era alzato al mattino e aveva scelto qualcosa da mettersi, la camicia quella rossa, e il vestito stretto sulle tette, esattamente quel che voleva, e adesso stava lì, e ognuno di loro aveva una vita dietro e una vita davanti, stavano giusto transitando lì dentro, domani avrebbero rifatto tutto da capo, la camicia quella blu, il vestito lungo, e sicuramente la bionda con le lentiggini aveva una madre in qualche ospedale, con tutti gli esami del sangue sballati, ma adesso era lì che scartava le patatine un po’ nere dalle altre, leggendo il giornale appoggiato sul salino a forma di pompa di benzina, c’era uno vestito tutto da baseball, che sicuramente non entrava in un campo da baseball da anni, stava lì con suo figlio, un ragazzino, e continuava a dargli delle sberle sulla testa, dietro la testa, ogni volta il ragazzino si risistemava su il cappellino, un cappellino da baseball, e il padre tac, un’altra sberla, e tutto mentre mangiavano, sotto un televisore appeso al muro, spento, col rumore della strada, che arrivava a folate, con seduti in un angolo due molto eleganti, in grigio, due uomini, e uno dei due si vedeva che piangeva, era assurdo, ma piangeva, su una bistecca con patate, piangeva in silenzio, e l’altro non faceva una piega, anche lui con una bistecca davanti, mangiava e basta, solo, a un certo punto, si alzò, andò fino al tavolo vicino, prese la bottiglia del ketchup, tornò al suo posto e stando attento a non macchiarsi il vestito grigio ne svuotò un po’ nel piatto dell’altro, quello che piangeva, e gli sussurrò qualcosa, non so cosa, poi chiuse la bottiglia e ricominciò a mangiare, loro nell’angolo, e tutto il resto attorno, con un gelato all’amarena pestato per terra, e sulla porta del bagno un cartello che diceva fuori servizio, io guardai tutto quello ed è chiaro che c’era solamente da pensare che vomito, ragazzi, una cosa da vomitare tanto era triste, e invece quello che mi successe fu che mentre stavo lì in coda e il vietnamita continuava a non capirci un accidente io pensai Dio che bello, con addosso perfino un po’ di voglia di ridere, accidenti com’è bello tutto questo, proprio tutto, fino all’ultima briciola di roba schiacciata per terra, fino all’ultimo tovagliolino unto, senza sapere perché, ma sapendo che era vero, era tutto dannatamente bello. Assurdo, no?

Eva Braun

“Faceva il pianista in un enorme centro commerciale, al piano terra, sotto la scala mobile che saliva, avevano messo un po’ di moquette rossa per terra e un pianoforte bianco e lui suonava sei ore al giorno, in frac, Chopin, Cole Porter, roba del genere, tutto a memoria. Aveva in dotazione un cartellino stampato in modo elegante, sopra c’era scritto Il nostro pianista torna subito: quando doveva andare al cesso lo tirava fuori e lo posava sul pianoforte. Poi tornava e ricominciava. Non era cattivo come gli altri padri, voglio dire, non cattivo in quel modo lì... lui non picchiava nessuno, non beveva, non si scopava la segretaria, niente del genere, era uno che anche la macchina... non se la comprava, ci stava attento a non avere una macchina troppo... troppo nuova, o bella, avrebbe potuto farlo, ma non lo faceva, ci stava attento, gli veniva naturale, non credo fosse un piano preciso, non lo faceva e basta, non faceva nessuna di quelle cose lì, e precisamente questo era il problema, capisci?, il problema nasceva lì... che non le faceva, quelle cose, e mille altre, lavorava e basta, questo faceva, come se la vita l’avesse offeso, e lui si fosse ritirato in quel suo mestiere che era una disfatta, senza nessuna voglia di tirarsene fuori, era come un buco nero, una voragine di infelicità, e la tragedia, la vera tragedia, il cuore di tutta quella tragedia era che in quel buco ci ha trascinato da dio, me e mia madre, non faceva altro che trascinarci lì dentro, con una costanza miracolosa, ogni attimo della sua vita, ogni istante, dedicando ogni suo gesto alla maniacale dimostrazione di un teorema micidiale, il seguente teorema, che se lui era così lo era per noi due, per me e mia madre, questo era il teorema, per noi due, perché c’eravamo noi due, per colpa di noi due, per salvare noi due, per per per, tutto il santo tempo a ricordarci questo teorema idiota, tutta la sua vita con noi è stato questo lungo gesto ininterrotto e sfinente, che lui oltre tutto ha compiuto deliberatamente nel modo più crudele e astuto possibile, cioè senza mai dire una parola, senza che se ne parlasse mai, non ne parlava mai, poteva dircelo, chiaramente, ma non lo disse mai, non una parola, e questo era tremendo, questo era crudele, non dire mai niente, e poi dirtelo tutto il santo tempo, per come stava a tavola, e quello che vedeva alla televisione, e perfino come si tagliava i capelli, e tutte le dannate cose che non faceva, e la faccia con cui ti guardava... era crudele, è una cosa che ti può far uscire matta, e io ci stavo uscendo, matta, ero una bambina, una bambina non si può difendere, i bambini sono delle carogne ma per certe cose non hanno difese, è come picchiarli, cosa può fare un bambino, non può fare niente, io non ci potevo far niente, me ne uscivo matta e basta, così un giorno mia madre mi ha presa e mi ha raccontato di Eva Braun. Era un bell’esempio. La figlia di Hitler. Mi disse che dovevo pensare a Eva Braun. Ce l’ha fatta lei, puoi farcela anche tu, mi disse. Era un discorso strano, ma filava. Mi disse che quando lui si era ucciso, alla fine, con una pastiglia di cianuro, lei si era uccisa con lui, era lì, nel bunker, e si era uccisa con lui. Perché anche nel peggiore dei padri c’è qualcosa di buono, mi disse. E bisogna imparare ad amare quel qualcosa. Io pensavo. Mi immaginavo in cosa potesse essere buono, Hitler, e mi facevo delle storie su questa faccenda, tipo lui che torna a casa la sera, stanco, e parla sottovoce, e si siede davanti al caminetto, fissando il fuoco, stanco da morire, e io, che ero Eva Braun, no?, una bambina con delle treccine bionde, e le gambe bianche bianche sotto la gonna, io lo guardavo senza avvicinarmi, dalla stanza vicina, e lui era così splendidamente stanco, con tutto quel sangue che gli colava dappertutto, bellissimo nella sua divisa, non c’era che stare lì a guardarlo, il sangue spariva e vedevi solo la stanchezza, meravigliosa stanchezza, che io stavo lì ad adorare, fino a che lui a un certo punto non si girava verso di me, e mi vedeva, e mi sorrideva, e si alzava, con tutta la sua accecante stanchezza addosso e veniva verso di me, fin da me, e si accovacciava di fianco a me: Hitler. Robe da chiodi. Mi diceva qualcosa sottovoce, in tedesco, e poi con la mano, la mano destra, lentamente mi accarezzava i capelli, e per quanto possa sembrare agghiacciante, quella mano era dolce, e calda, e soave, aveva una specie di saggezza dentro, una mano che ti poteva salvare, e, per quanto possa sembrare ripugnante, una mano che potevi amare, che finivi per amare, finivi per pensare com’era bello che fosse la mano destra di tuo padre, dolce, su di te. Cose del genere, mi facevo passare per la testa. Per allenarmi, capisci? Eva Braun era la mia palestra. Col tempo divenni bravissima. La sera fissavo mio padre, seduto in pigiama davanti alla tivù, finché non vedevo Hitler, in pigiama davanti alla tivù. Tenevo ferma l’immagine per un po’, me la bevevo per bene, poi sfocavo e ritornavo a mio padre, alla sua faccia vera: dio, sembrava dolcissima, tutta quella stanchezza e quell’infelicità. Poi tornavo a Hitler, poi ripescavo mio padre, andavo avanti e indietro con la fantasia ed era un modo per sfuggire alla tortura, ai silenzi, a tutta quella merda lì. Funzionava. A parte rare volte funzionava. Va be’. Un bel po’ di anni dopo lessi su una rivista che Eva Braun non era la figlia di Hitler, ma l’amante. La moglie, non so. Insomma, ci andava a letto. Fu un colpo. Mi mise un sacco di confusione in testa. Cercai di risistemare le cose, in qualche modo, ma non c’era verso. Non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di Hitler che si avvicinava a quella bambina e iniziava a baciarla e tutto il resto, uno schifo, e la bambina ero io, Eva Braun, e lui diventava mio padre, tutto un pasticcio, una cosa orrenda. Se n’era andato in briciole, il giochetto, non c’era modo di rimetterlo insieme, aveva funzionato, ma non funzionava più. Finita lì. Non ho mai più voluto bene a mio padre fino a che non ha cambiato treno, come diceva lui. Buffa storia. Cambiò treno una domenica qualunque. Se ne stava lì a suonare, sotto la scala mobile, e gli arrivò vicino una signora tutta ingioiellata e anche un po’ brilla. Lui stava suonando When we were alive, e lei si mise a ballare, davanti a tutti, con le borse della spesa in mano, e con una faccia beata. Tirarono avanti così per una mezz’ora. Poi lei se lo portò via, e se lo portò via per sempre. Tutto quel che lui disse, a casa, fu: ho cambiato treno. Lì, ad essere sincera, tornai a volergli un po’ di bene, perché era come una liberazione, non so, si era anche pettinato un po’ da latin lover, con la riga ben scolpita tra i capelli bianchi, e una camicia nuova, lì per lì mi venne da volergli bene, almeno un istante, fu come una liberazione. Ho cambiato treno. Anni di tragedia domestica cancellati da una frase da niente. Grottesco. Ma un sacco di volte è così, è così quasi sempre: si scopre alla fine che il dolore, tutto quel dolore, era inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era né giusto né ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile, tutto quello che puoi dire alla fine è: era un dolore inutile. Roba da impazzire, se ci pensi, meglio non pensarci, tutto quello che puoi fare è non pensarci più, mai più, capisci?”

Walt Disney

“Insomma, lui era il più grande, è stato il più grande. Un reazionario bestiale, se vuoi, ma ci sapeva fare con la felicità, era il suo talento, arrivava dritto alla felicità, senza tante complicazioni, e si è tirato dietro tutti, proprio tutti, il più grande noleggiatore di felicità che si sia mai visto, ne aveva per tutte le tasche, per tutti i gusti, con le sue storie di paperi e nani e bambi, se ci pensi, come abbia fatto, eppure si è messo lì e ha distillato da tutto il gran casino qualcosa che poi se uno ti chiede cos’è la felicità, anche se ti fa un po’ schifo alla fine tu devi ammettere che, magari non proprio cos’è, ma che sapore ha, il gusto, voglio dire, come dire alla fragola o al lampone, la felicità ha quel gusto lì, non c’è santo, sarà roba falsa fin che vuoi, non sarà la felicità autentica, l’originale, per così dire, ma quelle erano copie favolose, meglio dell’originale, che tanto non c’è modo di...”

Il Salone della Casa Ideale

Quando ero piccola la cosa più bella era andare a vedere il Salone della Casa Ideale. Era all’Olympia Hall, un posto enorme, sembrava una stazione, con il tetto fatto a cupola, enorme.

Invece dei binari e dei treni c’era il Salone della Casa Ideale. Non so se ha presente, colonnello. Lo facevano tutti gli anni. La cosa incredibile è che costruivano delle vere e proprie case, e tu giravi, come in un paese assurdo, con le stradine e i lampioni agli angoli, e le case erano tutte diverse, e molto pulite, nuove. Era tutto molto a posto, le tendine, il vialetto, c’erano anche i giardini, era un mondo da sogno. Potevi pensare che era tutto di cartone e invece lo facevano con mattoni veri, anche i fiori erano veri, tutto era vero, ci avresti potuto abitare, potevi salire le scale, aprire le porte, erano case vere. È difficile da spiegare ma tu camminavi lì in mezzo e sentivi una cosa molto strana nella testa, come una sorta di meraviglia dolorosa. Voglio dire, quelle erano case vere, e tutto, ma poi, in realtà, le case vere erano diverse. La mia aveva sei piani, le finestre tutte uguali e una scala di marmo, con dei piccoli pianerottoli a ogni piano, e un odore di disinfettante dappertutto. Era una bella casa. Ma quelle erano diverse. Avevano i tetti strani, e delle forme stilose, con le finestre a bovindo, e la veranda davanti, o delle scale che salivano e giravano, e terrazzini, balconi, cose così. E un lampioncino sulla porta. O il garage con il portone colorato. Erano vere, ma non erano vere: era questo, che ti fregava. A ripensarci adesso, c’era già tutto nel titolo, Salone della Casa Ideale, ma tu che ne sapevi, allora, di cos’era ideale e cosa no. Non ce l’avevi il concetto di ideale. Così ti prendeva di sorpresa, alle spalle, per così dire. Ed era una sensazione strana. Credo che potrei farle capire esattamente la cosa se riuscissi a spiegarle perché la prima volta che ci andai finì che scoppiai a piangere. Sul serio. A piangere. C’ero andata perché mia zia lavorava lì, e aveva i biglietti gratis. Lei era molto bella, una signora alta, con dei lunghi capelli neri. L’avevano presa per fare la mamma che lavorava in cucina. Il fatto è che ogni tanto le animavano, quelle case, cioè ci mettevano della gente dentro a far finta di vivere lì, che ne so, un signore seduto in salotto a leggere il giornale e fumare la pipa, e perfino dei bambini, in pigiama, a letto, nei letti a castello, una meraviglia, noi non li avevamo mai visti i letti a castello. Era sempre per ottenere quell’effetto di ideale, capisce? Anche loro, i personaggi, erano ideali. Mia zia faceva l’ideale in cucina, tutta elegante, e bella, con un grembiule disegnato: metteva a posto aprendo gli sportelli di una cucina americana, li apriva e li chiudeva in continuazione, ma con dolcezza, e tirava fuori tazzine e piatti, cose così, tutto il tempo. Sorridendo. Alle volte venivano anche delle star del cinema, o dei cantanti famosi, e facevano la stessa cosa, coi fotografi che li fotografavano e la foto, il giorno dopo, sul giornale. Mi ricordo una tutta impellicciata, una cantante, credo, coi brillanti alle dita, che guardava l’obbiettivo e intanto passava un aspirapolvere Hoover. Noi non sapevamo nemmeno cos’era, l’aspirapolvere. Questa era un’altra cosa bella del Salone della Casa Ideale: quando uscivi da lì, avevi la testa piena di cose che non avevi mai visto, e che non avresti mai più visto. Era così. Comunque la prima volta ci andai con mia madre, e c’era proprio all’ingresso un paesino di montagna ricostruito, tale e quale, con i prati e i sentierini, una bellezza. Dietro avevano disegnato un fondale enorme con i picchi delle montagne e un cielo blu. Io incominciai a sentirmi dentro la testa strane cose. Sarei rimasta lì a guardare per sempre. Mia madre mi portò via e finimmo in un posto in cui c’erano solo bagni, uno dopo l’altro, bagni da non crederci, e l’ultimo si intitolava “Ora e allora”, c’era un sacco di gente a guardare, era una specie di scena, a destra vedevi un bagno come li facevano cento anni fa e a sinistra un bagno identico ma con tutte le cose moderne, di oggi. La cosa incredibile è che nelle vasche da bagno c’erano due modelle, non c’era l’acqua ma c’erano due signorine, e, questo è geniale, erano gemelle, capisce?, due gemelle, che stavano nella stessa identica posizione, una in una tinozza di rame e l’altra in una vasca tutta smaltata bianca, e l’altra cosa pazzesca è che erano nude, giuro, completamente nude, sorridevano al pubblico e tenevano le braccia in una posizione studiata che faceva intravedere le tette ma non le lasciava proprio vedere, una via di mezzo, e tutti commentavano molto seriosamente gli arredi del bagno, ma con l’occhio in realtà guizzavano in continuazione a controllare se caso mai le braccia non si fossero spostate un po’, quel poco che bastava per vedere le tette delle gemelle, che, tra parentesi, vede le cose strane che uno finisce di ricordare, si chiamavano gemelle Dolphin, anche se adesso, a ripensarci, mi sa che fosse un nome d’arte. Le dico questa storia del bagno perché anche questo c’entra col fatto che io sia scoppiata a piangere, alla fine. Voglio dire, era tutto un insieme di cose che ti sconcertava, fin dall’inizio, una macchina che ti lavorava ai fianchi e ti predisponeva, per così dire, a qualche cosa di speciale. Comunque, andammo via da lì, dalle gemelle nude, ed entrammo nel corridoio centrale. C’erano tutte quelle Case Ideali, una in fila all’altra, ognuna col suo giardino, alcune che sembravano antiche, o vecchie, e altre più moderne, con una spider posteggiata davanti. Una meraviglia. Camminavamo lentamente, e a un certo punto mia madre si fermò e disse - Guarda questa com’è bella, - era una casa a due piani, con una veranda davanti, il tetto spiovente e dei lunghi comignoli di mattoni rossi. Non aveva niente di straordinario, era ideale in un modo molto normale, e forse proprio per questo ti fregava. Rimanemmo lì a guardarla, in silenzio. C’era tutta la gente che ci passava attorno, chiacchierando, e tutto quel rumore che c’è sempre al Salone della Casa Ideale, ma io iniziai a non sentir più niente, come se tutto a poco a poco si spegnesse, nella mia testa. E a un certo punto successe che dalla finestra della cucina, una grande finestra, al pian terreno, con delle tendine aperte, io vidi la luce accendersi, dentro, e entrare una signora, sorridente, con dei fiori in mano. Si avvicinò al tavolo, posò i fiori, prese un vaso e andò al lavandino per riempirlo di acqua. Faceva tutto come se nessuno la stesse guardando, come se fosse in un angolo remoto del mondo, dove c’era solo lei, e quella cucina. Prese i fiori e li mise nel vaso, poi posò il vaso al centro del tavolo, dando una sistematina a qualche rosa che scappava da una parte. Era una signora bionda, con un cerchietto che le teneva indietro i capelli. Si voltò, andò verso il frigo, lo aprì e si chinò a prendere una bottiglia di latte e qualcos’altro. Richiuse il frigo con una leggera mossa del gomito, perché aveva le mani occupate. E io non potevo sentirlo, ma sentii distintamente il clac della porta che si chiudeva, preciso, metallico e un po’ caldo. Io non ho mai più sentito nulla di così esatto, e definitivo, e salvifico. Allora guardai per un attimo la casa, tutta la casa, il giardino, i comignoli, la sedia sulla veranda, tutto. E poi scoppiai a piangere. Mia madre si spaventò, pensava mi fosse successo qualcosa, e in effetti qualcosa mi era realmente successo, ma lei pensò che mi era scappata la pipì, era una cosa che mi succedeva spesso, quando ero bambina, mi scappava la pipì e mi mettevo a piangere, così lei pensò che esattamente quello era successo e incominciò a trascinarmi verso i bagni. Dopo, quando vide che sotto ero asciutta, iniziò a chiedermi cosa avevo, e non la smetteva più di chiedermelo, una tortura, perché ovviamente io non sapevo cosa rispondere, riuscivo solo a ripetere che andava tutto bene, che stavo bene E allora perché piangi?

- Non sto piangendo.

- Sì che stai piangendo.

- Non è vero.

Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. Non so se ha presente, colonnello. È un po’ come quando si guardano i trenini elettrici, soprattutto se c’è il plastico, con la stazione e le gallerie, le mucche nei prati e i lampioncini accesi di fianco ai passaggi a livello. Succede anche lì. Oppure quando si vede nei cartoni animati la casa dei topolini, con le scatole di fiammiferi al posto dei letti, e il quadro del nonno topo alla parete, la libreria, e un cucchiaio che fa da sedia a dondolo. Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l’anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce catastrofe. Credo che c’entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da fuori. Non ci puoi entrare, nel trenino, questo è il fatto, e la casa dei topi è qualcosa che rimane lì, nella televisione, e tu sei irrimediabilmente davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare. Anche quella Casa Ideale, quel giorno, ci potevi anche entrare, se volevi, facevi un po’ di coda e poi potevi entrare a visitare gli interni. Ma se lo facevi, non era la stessa cosa. C’era un mucchio di roba interessante, era curioso, potevi anche toccare i soprammobili, ma non c’era più quella meraviglia di quando l’avevi vista da fuori, quella sensazione non c’era più. È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai. Mia madre continuava a chiedermi perché ero triste, e io avrei voluto dirle che non ero triste, al contrario, avrei dovuto spiegarle che c’entrava piuttosto qualcosa tipo la felicità, tipo la devastante esperienza di averla vista, di colpo, e in quella idiota casa lì. Ma come si faceva. Anche adesso, non riuscirei. C’è anche un po’ da vergognarsi. Quella era una stupida Casa Ideale fatta apposta per fregarti, era tutto un grande e idiota business di geometri e muratori, era una solenne truffa, per dirla tutta. Per quanto ne so io l’architetto che l’aveva disegnata poteva essere un perfetto imbecille, uno che a pranzo andava all’uscita delle scuole a strusciarsi contro le ragazzine e a sussurrargli Succhiami il cazzo e cose del genere. Non so. D’altronde, non so se l’ha notato anche lei, in genere, se c’è qualcosa che ti colpisce come una rivelazione, puoi scommetterci che è una cosa fasulla, voglio dire, una cosa che non è vera. Prenda l’esempio del trenino. Lei può stare a guardare per ore una stazione vera e non succede niente, poi basta un’occhiata a un trenino e, tac, si scatena tutto quel ben di dio. Non ha senso, ma è dannatamente così, e alle volte più è idiota, la cosa che ti becca, più ci rimani appeso, con la meraviglia, come se ci fosse bisogno di una certa dose di impostura, di deliberata impostura, per ottenere tutto quello, come se tutto avesse bisogno di essere falso, almeno per un po’, per riuscire, dopo, a diventare qualcosa come una rivelazione. Anche i libri, o i film, è la stessa cosa. Più fasulli di così si muore, e se va a vedere chi ci sta dietro può scommetterci che troverà solo solenni figli di puttana, ma intanto ci vedi dentro cose che ad andare in giro per la strada te le sogni, e nella vita vera non le troverai mai. La vita vera non parla mai. È solo un gioco d’abilità, roba che vinci o perdi, te lo fanno fare per distrarti, così non pensi. Lo usò anche mia madre, ‘sto trucco, quel giorno. Dato che non la smettevo di piagnucolare, mi trascinò fin davanti a una macchina tutta luci e scritte, una bella macchina, sembrava una slot machine, o qualcosa del genere. L’aveva messa su una ditta che faceva margarina. L’avevano studiata bene, niente da dire. Il gioco consisteva nel fatto che c’erano sei biscotti, su un piatto, e alcuni erano fatti col burro e altri con la margarina. Tu li assaggiavi, uno a uno, e ogni volta dovevi dire se erano fatti con la margarina o col burro. A quei tempi la margarina era una cosa un po’ esotica, non si avevano molte idee su cosa fosse, giusto si pensava che procurasse meno guai del burro e che sostanzialmente facesse schifo. Il problema era quello. Così loro studiarono quella macchina, e il gioco era che se il biscotto ti sembrava fatto col burro schiacciavi il pulsante rosso, e se invece ti sembrava che sapesse di margarina schiacciavi quello blu. Era divertente. E io smisi di piangere. Questo è indubbio.

La piantai di piangere. Non che fosse cambiato qualcosa dentro la mia testa, continuavo ad avere appiccicata addosso quella lancinante meraviglia dolorosa, e di fatto non me ne sarei liberata mai più, perché quando un bambino scopre che c’è un posto che è il suo posto, quando gli fai balenare per un attimo la sua Casa, e il senso di una Casa, e soprattutto l’idea che ci sia, una Casa, poi è fatta per sempre, fottuto fino alla fine, da lì non si torna indietro, continuerai ad essere uno che passa da lì per caso, con addosso una lancinante meraviglia dolorosa, e quindi sempre più allegro degli altri e sempre più triste, con tutte quelle cose, mentre vagoli, da ridere e da piangere. Nel caso specifico, comunque, io smisi di piangere. Funzionò. Mangiavo biscotti, schiacciavo pulsanti, si accendevano luci, e non piangevo più. Mia madre era contenta, pensava che fosse tutto passato, mica poteva capire, lei, ma io sì, capivo tutto alla perfezione, sapevo che non era passato niente, che non sarebbe passato mai più, ma intanto non piangevo, e giocavo col burro e la margarina. Sa le volte, poi, che ho risentito addosso quella sensazione... Mi pare di non avere fatto altro, da allora. Con la mente altrove, lì a schiacciare pulsanti blu o rossi, cercando di indovinare. Un gioco d’abilità. Te lo fanno fare per distrarti. Dato che funziona, perché mai non ci dovresti stare? Tra l’altro, quando finì il Salone della Casa Ideale, quell’anno, la ditta che faceva margarina comunicò che ci avevano giocato in centotrentamila, a quel gioco, e che a indovinare tutti e sei i biscotti era stato solo l’8 per cento dei concorrenti. Lo comunicarono con un certo trionfalismo. Credo che più o meno sia la mia stessa percentuale di successo. Voglio dire che se penso a tutte le volte che mi ci sono messa, a cercare di indovinare, schiacciando i tasti blu e rossi di ‘sta vita qui, devo averci azzeccato più o meno l’8 per cento delle volte, è una percentuale che mi sembra plausibile. Lo dico senza trionfalismo. Ma dev’essere andata più o meno così. Per come la vedo io.


Gli altri sono le strade io sono una piazza

Shatzy tornò a casa che erano le cinque del mattino. Quando andava a letto con qualcuno, poi detestava dormirci insieme. Era ridicolo, ma trovava sempre qualche scusa e se ne andava.

Si sedette sui gradini, senza entrare. Era ancora buio. C’erano rumori strani, rumori che di giorno non si sentono. Come briciole di cose che erano rimaste indietro, e adesso si davano da fare per raggiungere il mondo, e arrivare puntuali all’alba, nel ventre del rumore planetario.

C’è sempre qualcosa che si perde per strada, pensò.

Devo smetterla, pensò.

Finire nel letto di uno che non hai mai visto prima è come viaggiare. Lì per lì è tutta una gran fatica, anche un po’ ridicola.

È bello dopo, quando ci ripensi. È bello averlo fatto, andare in giro il giorno dopo, pulite e impeccabili, e pensare che la notte prima tu eri là a fare quelle cose e a dire quelle cose, soprattutto a dire quelle cose, e a uno che non vedrai mai più.

Di solito non li vedeva mai più.

Devo smetterla, pensò.

Non si finisce da nessuna parte, così.

Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?, sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto. Magari mi iscrivo in palestra, pensò. Ce n’era una lì vicino, che era aperta anche di sera. Perché mi piace fare tutto di sera? Si guardò le scarpe, e i piedi nudi nelle scarpe, e le gambe nude sopra i piedi, fino al bordo della gonna, corta. Le calze, autoreggenti di seta, le aveva appallottolate nella borsa. Non riusciva mai a rimettersele, quando si alzava dal letto per rivestirsi e andarsene. Era come ricaricare le pistole dopo un duello. Stupido. Cosa ne dici vecchio Bird? Anche tu le rimettevi nella fondina scariche, le tue pistole, dopo aver sparato? Le appallottolavi e le cacciavi nella borsa? Vecchio Bird. Ti farò morire in un modo bellissimo.

Pensò di entrare, e di andare a dormire. Ma alla luce dei lampioni si vedeva la roulotte, immobile, posata nel giardino, un po’ meno gialla del solito. Una volta alla settimana la lavava per bene, anche i vetri, e le gomme, tutto. A furia di vederla lì, ogni giorno, per mesi, era diventata un pezzo del paesaggio, come un albero, o un ponte su un fiume. Shatzy lo capì tutto d’un colpo, in quel buio da notte agli sgoccioli, con le calze da puttana appallottolate nella borsa: immobile, luccicante, gialla: non era più qualcosa che aspettava di partire. Era diventata una di quelle cose che hanno come compito rimanere, tenere ferme le radici di un qualche pezzo di mondo. Le cose che, al risveglio o al ritorno, hanno vegliato per te. È strano. Ci si va a cercare marchingegni incredibili per farsi portare via lontano, e poi li si tiene accanto con un amore tale che lontano, prima o poi, diventa lontano anche da loro.

Stronzate, è solo questione di trovare una macchina, pensò.

Non si poteva fare a meno di una macchina. Le roulotte non vanno avanti da sole.

Avrebbero trovato una macchina, tutto lì.

E sarebbero andati via lontano.

Sembra un albero, pensò. Sentì salire dentro una cosa che non le piaceva, la conosceva e non le piaceva, era una specie di lontano rumore di disfatta. Il segreto, in quei casi, era non lasciarle il tempo di venir fuori. Era urlare così forte da non sentirlo più. Era mettersi un paio di calze autoreggenti nere, uscire da casa, e finire nel letto di uno mai visto prima.

Già fatto, pensò. Così optò per una versione a squarciagola di New York, New York.


La virtù dei mediocri e la teoria dei fiumi

è il loro modo di far tornare le cose, i mediocri non sanno di essere mediocri, questo è il fatto, proprio in quanto mediocri gli manca la fantasia per immaginare che qualcuno possa essere meglio di loro, e dunque chi di fatto lo è deve averci qualcosa che non va, deve aver barato da qualche parte, o in definitiva deve essere un matto che si immagina di essere migliore di loro, e cioè un presuntuoso, come certamente ti faranno capire molto presto e con sistemi neanche troppo piacevoli, perfino con crudeltà, alle volte, questo è tipico dei mediocri, essere crudeli, la crudeltà è la virtù per eccellenza dei mediocri, hanno bisogno di esercitare la crudeltà, esercizio per cui non è necessaria la minima intelligenza, cosa che li facilita, ovviamente, che gli rende agevole l’operazione, li fa eccellere, per così dire, in quella operazione che è l’essere crudeli, ogni volta che possono, e quindi spesso, più spesso di quanto tu ti possa aspettare, tanto che ti sorprenderanno, questo è inevitabile, la loro crudeltà ti prenderà alle spalle, facilmente accadrà proprio così, che ti prenderà alle spalle e allora non sarà affatto facile, è meglio che tu lo sappia fin da adesso, se ancora non l’hai capito, ti prenderanno alle spalle, io non sono mai propriamente sopravvissuta a niente che mi abbia preso alle spalle, e so che non c’è modo, in definitiva, di difenderti da ciò che ti colpisce alle spalle, è una cosa contro cui non c’è niente da fare, solo continuare per la propria strada, cercando di non cadere, di non fermarsi, tanto nessuno è così idiota da pensare che si possa arrivare, veramente, da qualche parte in un modo diverso che vacillando, e collezionando ferite da tutte le parti, e in particolare alle spalle, sarà così anche per te, e soprattutto per te, volendo, visto che non vuoi toglierti dalla testa questa curiosa idea, questa idea del cazzo, di camminare davanti agli altri, per una strada, oltretutto, che io non voglio dire ma, la scuola e tutto quanto, il Nobel, quella faccenda lì, non puoi pretendere che io veramente la capisca, fosse per me ti legherei alla tazza del cesso fino a quando non ti passa, ma d’altra parte non sono la persona più adatta a capire, non ce l’ho mai avuta questa cosa di camminare davanti agli altri, non so, e poi con la scuola è stato un fallimento, proprio sempre, senza scampo, quindi è naturale che io non ci capisca niente, anche se mi sforzo, mi viene solo in mente quella storia dei fiumi, se proprio voglio trovare qualcosa che mi faccia digerire tutta questa faccenda, finisco per pensare ai fiumi, e al fatto che si son messi lì a studiarli perché giustamente non gli tornava ‘sta storia che un fiume, dovendo arrivare al mare, ci metta tutto quel tempo, cioè scelga, deliberatamente, di fare un sacco di curve, invece di puntare diritto allo scopo, devi ammettere che c’è qualcosa di assurdo, ed è esattamente quello che pensarono anche loro, c’è qualcosa di assurdo in tutte quelle curve, e così si sono messi a studiare la faccenda e quello che hanno scoperto alla fine, c’è da non crederci, è che qualsiasi fiume, non importa dove sia o quanto sia lungo, qualsiasi fiume, proprio qualsiasi fiume, prima di arrivare al mare fa esattamente una strada tre volte più lunga di quella che farebbe se andasse diritto, sbalorditivo, se ci pensi, ci mette tre volte tanto quello che sarebbe necessario, e tutto a furia di curve, appunto, solo con questo stratagemma delle curve, e non questo fiume o quello, ma tutti i fiumi, come se fosse una cosa obbligatoria, una specie di regola uguale per tutti, che è una cosa da non credere, veramente, pazzesca, ma è quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi, per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c’è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi, voglio dire, il meno che ti puoi aspettare è che anche per noi sia più o meno lo stesso, e che tutto questo sbandare da una parte e dall’altra, come se fossimo matti, o peggio smarriti, in realtà è il nostro modo di andare diritti, modo scientificamente esatto, e per così dire già preordinato, benché indubbiamente simile a una sequenza disordinata di errori, o ripensamenti, ma solo in apparenza perché in realtà è semplicemente il nostro modo di andare dove dobbiamo andare, il modo che è specificatamente nostro, la nostra natura, per così dire, cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, sì, è una storia che se ci pensi è rassicurante, io la trovo molto rassicurante, che ci sia una regola oggettiva dietro a tutte le nostre stupidate, è una cosa rassicurante, tanto che ho deciso di crederci, e allora, ecco, quel che volevo dire è che mi fa male vederti navigare curve da schifo come quella di Couverney, ma dovessi anche andare ogni volta a guardare un fiume, ogni volta, per ricordarmelo, io sempre penserò che è giusto così, e che fai bene ad andare, per quanto solo a dirlo mi venga da spaccarti la testa, ma voglio che tu vada, e sono felice che tu vada, sei un fiume forte, non ti perderai, non importa se io da quella parte non ci sarei andata neanche morta, è solo che siamo fiumi diversi, evidentemente, io devo essere un fiume di un altro modello, anzi se ci penso mi sa che più che un fiume, voglio dire, facile che io sia un lago, non so se capisci, forse alcuni sono fiumi e altri laghi, io sono un lago, non so, qualcosa di simile a un lago, una volta ho fatto il bagno in un lago, era molto strano perché vedi che vai avanti, voglio dire, è tutto così piatto che quando nuoti ti accorgi che vai avanti, è una sensazione strana, e poi c’erano un sacco di insetti e se mettevi i piedi giù, vicino a riva, dove toccavi, se mettevi i piedi giù faceva uno schifo bestiale, come della sabbia unta, da sopra non l’avresti mai detto, ma una specie di sabbia unta, del petrolio, una cosa così, abbastanza schifosa davvero

Ancora sulla la teoria dei fiumi

gli raccontò la storia dei fiumi, quella faccenda che se un fiume deve arrivare al mare lo fa a furia di girare a destra e sinistra, quando indubbiamente sarebbe più veloce, più pratico, andare dritti allo scopo invece di complicarsi la vita con tutte quelle curve, ottenendo solo di allungare il cammino di tre volte - tre virgola quattordici volte - ad essere precisi come hanno appurato gli scienziati con scientifica precisione, e bella.

- È come se fossero obbligati a girare, capisce?, sembra un’assurdità, se ci pensa non può evitare di prenderla per un’assurdità, ma il fatto è che loro devono andare avanti in quel modo, mettendo in fila una curva dopo l’altra, e non è un modo assurdo o logico, non è né giusto né sbagliato, è il loro modo, semplicemente, il loro modo, e basta.