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City in blog e webzine 


L'uscita di City si colloca nel periodo dell'esplosione dell'interattività del Web, con il prolifereare di commentatori e recensioni che si esprimono, dai blog e webzine. 

Le recensioni su City rispecchiamo lo stesso sentire controverso su Baricco, rivelato già sui forum dei lettori o sui siti di recensioni dei lettori. Gli stessi caratteri della scrittura di City, primo tra tutti il virtuosismo dello stile di Baricco, vengono esaltati o stigmatizzati in eclatanti stroncature che sfoggiano altrettanto virtuosismo stilistico.

 

Nautilus Web Magazine - Letture 6/1999

Giugno 1999 Francesco Roat

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finisce per dilatarsi a metropoli, in una ipertrofia di trame, registri, toni e piani narrativi che rischiano di trasformare la scrittura di Baricco in un barocco enfatico nel tentativo di troppo dire, esplorare, raccontare e soprattutto produrre un’opera di fascinazione ed autofascinazione.

Mi si potrebbe obiettare: ma è proprio questo il pregio, la prospettiva così post-moderna di City. Il suo essere giusto un paradossale romanzo di formazione all’insegna dell’eterogeneità delle vicende e della varietà di percorsi espressivi. Sì, ma il rischio di smarrirsi (e intendo in termini di tenuta estetica e insieme romanzesca, o narrativa, se il termine suona più gradito) nei dedali di City è alto. Per farmi capire meglio dirò che, stante la bravura del raccontare intorno ai vari modi di raccontare, Baricco – a differenza di quanto gli è accaduto negli altri lavori precedenti – qui è come se avesse compiuto una scelta coscientemente contraddittoria: cercare di sorvegliare al massimo (dal punto di vista del virtuosismo della pedaliera stilistica) l’architettura formale, forzandola tuttavia sino a farla esplodere in mutazioni incontrollate quasi da scrittura automatica e ibridazioni di genere (in City si passa da racconti di grande fluidità descrittiva a brani di insistito lirismo, dialoghi cinematografici, sceneggiature tipo spaghetti-western, capitoli svincolati dai lacci e lacciuoli ortografici della punteggiatura, infine a pezzi di saggistica pura, come la lezione di filosofia-estetica tenuta circa a metà testo dal personaggio del professor Bandini) germinanti una miriade di microstorie irrisolte (non semplicemente lasciate sospese, bensì abbandonate al lettore).

Si ha, inoltre, l’impressione di troppa carne al fuoco: talmente vasti sono i panorami narrativi e metanarrativi dispiegati da una City in cui siamo costretti a vagabondare a effetto di spaesamento nei confronti del racconto/del raccontare tradizionale – ma dovremmo avere già abdicato, nella visuale del nostro disincanto, alle pretese di esaustività narrativa, di completezze, di storie conchiuse – non certo catartico bensì semplicemente letterario.

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13 Apr 2007Francesco Sasso

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Alla fine della lettura di City, ho avuto l’impressione che lo scrittore torinese si sia divertito a prendere per i fondelli una tipologia ben definita di lettore e alcuni critici nostrani, sbeffeggiandoli, facendo loro il verso, del tipo: sostenete che io sia così? Bene, so di poter essere come voi mi dipingete. Eccomi!

City è un libro che si presta a un tipo di lettura a salti e a spizzico, come una confezione di snack da riporre in frigo, nel senso che non serve mica leggerlo tutto, si possono saltare decine e decine di pagine che il risultato è lo stesso. La prosa è informale, farcita da “cose così” ad ogni chiusura di frase. I dialoghi sono di mezza riga, di una parola; e spesso rifanno il verso a certi film americani del tipo “fottiti, amico” e cose di tal fatta.

Per concludere, City è l’unico libro dello scrittore torinese che io abbia mai letto. Mi dicono che Seta sia migliore, non faccio fatica a crederlo, ma dopo questo romanzo ho un’unica domanda da formulare sorridendo: perché? Perché Baricco è ancora a piede libero? Perché?

 

f.s.

La City dai destini incrociati di Alessandro Baricco. | BeppeBlog

28/05/2007  Elena Pilato

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Illusionista di razza, scrittore furbo capace di prodezze linguistiche qui abbandonate a favore di una programmatica prosa “casual”, a metà tra i dialoghi serrati e colloquiali e la sciattezza stilistica ad effetto, Baricco “giochicchia”, come l’ultimo Orson Welles, sulla vischiosa, seduttiva ambivalenza di verità e menzogna, di camuffamenti e di mezze rivelazioni, concesse per bocche altrui. Alla fine ci si chiede, in molti tratti del romanzo: parla davvero l’autore, dietro e con i suoi personaggi, o è il caso di un fittizio ventriloquismo che copre gli infiniti accenti di un inconscio collettivo, che ha accumulato nella nostra mente tutte le storie e la memoria del mondo? Sicchè compito di chi scrive romanzi è solo quello di riportare “a galla” con le parole vestite dal suo stile, quelle narrazioni già esistenti e disseminate intorno a noi, da sempre?

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DeBaser: City - La recensione di Stoney

23/02/2009

Mi sono sempre chiesto: cos’è che fa di uno scrittore un grande artista? Lo stile? La narrazione? Le storie che racconta? Il peso storico? Dipende da tante cose.

Se l’autore in questione è Alessandro Baricco, però, i motivi sono terrbilmente più semplici: la pubblicità, la tendenza del pubblico ad autocompiacersi di una cultura personale che richiede il minor sforzo possibile, e non ultima la sua immensa paraculaggine.

Lo si evince già dalla prima pagina di questo "City": un minestrone di luoghi comuni e frasi fatte proclamate come se fossero le grandi verità della vita, aforismi finto-profondi dallo stile romanzato ma scorrevole, la forma perfetta della grande storia senza la storia, che accontenta tanto la post-adolescente alla ricerca delle frasette da dedicare al proprio ragazzo (9 donne su 10 vi regaleranno un libro di Baricco, sappiatelo) quanto il librofilo finto-acculturato con tanta voglia di leggere e pochissima di impegnarsi.

Baricco è un abile retore con la sensibilità di un macellaio. Usa uno stile pomposo e solenne fatto di discorsi infiniti, ragionamenti sull’assoluto, sulla vita e l’universo, con il quale distoglie l’attenzione dal “già visto” che impera in ogni riga che scrive. Ogni personaggio che costruisce è un contenitore zeppo delle caratteristiche tipiche dell’archetipo che rappresenta: il genio incompreso, la ragazza schiva ma sensibile che riesce a capirlo, il professore di matematica che impazzisce ragionando sulla verità ultima delle cose, ecc. Sembra di ascoltare uno di quei dischi dove il tecnicismo e la magniloquenza degli arrangiamenti nascondono soluzioni e idee già sperimentate da secoli in altri generi, o guardare quelle riedizioni delle automobili in cui telaio e motore rimangono uguali ma la linea della carrozzeria è lievemente più accattivante.

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DeBaser:  - La recensione di  R13565794 
17/09/2010

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City è un'opera sfuggente, non a pieno afferrabile. La scrittura, veloce, spigliata, ironica, spesso volutamente autoreferenziale e irresisibilmente accattivante, tanto che spesso ci si soprende toccati "al bersaglio grosso" da questa o quella vicenda, salacità, dialogo o assunto pseudo-filosofico contrasta e battaglia con una strutturazione degna di una suggestione prodotta dai pensieri onirici latenti di un Calatrava notturno, ancora frastornato dagli eccessi.

Il leggero eclettismo barocco (pare un'ossimoro, ne son conscio) di, calembour permettendo, Baricco, mai tendente al rococò narrativo o al pout pourri paroliero, crea una moltitudine di suite letterarie, mesciate l'una all'altra, sino a creare un pantagruelico labirinto figurativo, ammiccante quanto basta all'immaginario collettivo del ‘barbaro' di turno, figura moderna, anzi attualissima e feticcio universale del cittadino medio di nuova generazione.


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È facilmente riscontrabile una tendenza pedissequa nel render codificabile  alla personale claque letteraria, forme scrittorie, ritmi narrativi, situazioni paradossali finto-avanguardistiche, locuzioni giovanili, addirittura la creazione sbarazzina, derivanti da voci verbali elise, di termini come ‘nondire'. E i fruitori del romanzo a cui il Baricco sembra far riferimento sono le nuove generazioni, gli under 30, gli alfieri del ‘multitasking', i bardi di Gem Boy, Internet e McDonald, dell'assenza letteraria, ovvero della mancanza pressoché totale di libri nella propria quotidianità, dei paladini dello svecchiamento, tanto simili a dei Futuristi degli ‘00 (quanto inconsapevoli dell'esistenza dei loro ipotetici predecessori), prevedendo a buona ragione, una strenua difesa di costoro (dei giovani lettori, non di Marinetti & co) nei suoi confronti alle aspre perplessità (piovute dalle) alte cattedre universitarie o (degne di) nobili penne affette da purismo.

E son e saranno proprio costoro, secondo l'acuto disegno dell'autore ad accettare la volontà sperimentatrice (credibile o meno, sarà il diritto alla critica individuale a stabilirlo) emergente dalla carta, le coinvolgenti pulsazioni  anticonvenzionali, senza storcere troppo il naso davanti ad un passo palesemente ispirato a Salinger o a una frase presa con leggerezza in prestito dalla lunga tradizione degli scrittori d'oltreoceano Beat, proprio perché ignoranti dei termini di paragone da cui la loro nuova icona senza macchia avrebbe impunemente attinto. Non me la sento fino in fondo di definire il romanzo in questione uno svago per beoti impegnati in un'attività anti-intellettuale ma, invece un prodotto valido nel suo insieme, e a tratti davvero imperdibile, per tutti coloro si spoglino metaforicamente di pretese intellettive d'elevata risma o abbiano la pazienza di soprassedere a costruzioni ruffiane e soluzioni smaccatamente underground.

Permettendomi un paragone d'haute couisine, City è come una cena di luculliana memoria durante una serata di Gala, nella quale non mancano pregiate pietanze e libagioni. Tutto normale, tranne che queste vengan servite in accomodanti piattini di plastica e la sala addobbata con festoni e palloncini dal gusto dubbio. E allora non ti resta che mangiare, gustando le invitanti leccornie, accompagnando lo champagne alla bocca con un senso di stranezza,come se qualcosa non quadrasse, gettando ogni tanto una furtiva occhiata all'altro capo della tavolata, in modo da sondare la situazione e se il tuo sentore è condiviso dai commensali.
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Una recensione a City di SIMONE PIAZZESI


Baricco in City fa quello che, indubbiamente, sa fare meglio: racconta storie, come farebbe un nonno ad un nipote o un saltimbanco ad una corte. Non voglio soffermarmi qui su quello che racconta, sul “contenuto” stretto (che comunque è sempre di una godibilità unica), ma voglio cercare di capire perché racconta quelle storie e perché le racconta in quel modo.

Sembra infatti che Baricco abbia lasciato come tante pietruzze sparse nei suoi libri (specialmente in Castelli di rabbia e City) che, se seguite, conducono ad un nucleo filosofico, ad una verità ben più profonda dell’apparente semplicità e linearità delle sue storie.
Mi è sembrato, leggendo i suoi libri, che Baricco volesse svelarci come un segreto, o forse solo una sua personalissima idea, come un qualcosa che avesse a che fare in modo strettissimo con la natura stessa di una storia e di un libro.
“Che cos’è la letteratura?” e “Perchè si scrive?” si chiedeva anni fa Jean Paul Sartre… ecco, mi è sembrato che Baricco avesse cercato una sua personale risposta a questa domanda e avesse scelto, per comunicarcela, non la forma ampollosa del saggio ma quella molto più fruibile e leggera del romanzo.
La mia è forse un’idea banale, ma mi sembra che la Scrittura e il Raccontare Storie assolva nei libri di Baricco (ma forse in ogni libro) la funzione di rifugio dalla realtà, di nascondiglio in cui correre a nascondersi per fuggire all’assalto del Dolore, in qualsiasi forma lo si intenda: dolore fisico, morale, esistenziale. La letteratura, che è finzione per definizione (e quindi qualcosa di diverso dalla realtà) diventa adesso finzione salvifica. E a questo si aggiunge un’altra cosa: solo nel Dolore si nasconde, perla dentro l’ostrica, l’Autenticità, il segreto ultimo delle cose, la vera natura del Reale. La letteratura ci allontana dunque dalla Verità? No, paradossalmente fa l’operazione opposta, ci avvicina. C’è un piccolo particolare infatti: gli occhi umani non reggono alla vista dell’Autenticità, non la sopportano, è forse una luce troppo forte per loro, e quindi ecco che si appannano le percezioni, si inizia a non voler vedere la Verità e si confondono le figure esatte che il Dolore ci ha messo davanti. Così fanno i naufraghi sulla zattera dell’orrore in Oceano mare, così fanno i turisti davanti alle Nimpheas di Monet in City, così fanno in definitiva un po’ tutti i pazzi: fuggono dal bagliore dell’Autenticità, racchiusa nel Dolore, e si creano un mondo alternativo in cui poter almeno sopravvivere.
Riassumendo: la letteratura è un rifugio dal Dolore, ma solo nel Dolore c’è la Verità che però non può essere guardata ad occhio nudo; ecco quindi che l’unico modo per non ferirsi e per poterla percepire è guardarla attraverso il filtro della letteratura, che fa vedere e non vedere, trasformandosi in una specie di rifugio-pazzia che permette agli uomini di intuire l’Autenticità, di spiarla senza rimanerne accecati.

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TRE STORIE IN UNA - ZEROTTONOVE

07/05/2014 Redazione ZON

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Che si ami o meno Alessandro Baricco, le pagine di quest’opera lanciata in rete nel 1999, non passano certo inosservate. City è un po’ un gioco di scatole cinesi; le vicende in esso narrate sono ben tre, non una: non semplici binari paralleli ma cerchi concentrici, per cui, ciascuno dei due personaggi della storia principale, narra a sua volta, raccontandola a se stesso attraverso un registratore, un’altra storia.

Sulle prime il lettore potrebbe faticare a seguire i vari fili conduttori, a comprendere dove finisca la “realtà” ed inizi la finzione nella finzione, potrebbe confondere le vie: egli mettendo piede nella città sconosciuta si smarrisce, deve percorrere un po’ di strada prima di orientarsi correttamente nel groviglio di storie progettate dall’autore.

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La Frusta Letteraria - Alessandro Baricco - City 


Scriveva Benedetto Croce che l'Arte non "soffre" limiti né di forma né di contenuto. Ciò significa che chiunque può scrivere ciò che vuole e come vuole, davvero senza limiti, fuorché quello della nostra pazienza di lettori. Baricco ad esempio ha fatto una scelta particolare in questo romanzo: di non raccontare fatti di casa propria, di Dronero ad esempio, di non aspirare a quella forma di universalità che - secondo Balzac- si raggiunge  parlando del proprio paese. Non ha voluto Baricco essere nazionale, ma neanche universale nel senso anzidetto e neanche  cosmopolita ( come lo erano gli intellettuali italiani del '700 ad esempio, incipriati e coi nei posticci, girovaganti  tra Vienna, Parigi e Mosca), no, Baricco ha scelto una prosa di tipo  "internazionale" come può esserlo la sala di imbarco  di un aeroporto, un software, una marlboro.
Per soddisfare questa scelta di fondo Baricco si è come acquattato dentro un'America mai rivelata direttamente  nei toponimi (ma è pur sempre  quella stravista dei telefilm tipo "Su e giù per le strade di San Francisco"), e siccome è uno scrittore s'è affidato totalmente al registro  stilistico degli scrittori americani di cui si indovina essere un fan: Selby jr, Salinger,  Carver, forse Kerouac. Il processo di mimesi con costoro ha delle aderenze al limite del plagio o del "verso" se le intenzioni di Baricco fossero di tipo postmoderno, del genere: scrivere à la manière de...Tutto ciò si realizza ad esempio nell'inseguimento di una prosa casual, a mezza via tra il parlato del sermo cotidianus (ivi comprese le locuzioni anodine tipo "cose così" alla chiusa di una enumerazione) e una programmatica sciattezza stilistica; nell'elisione forzata di tutti i verbi che aprono o accompagnano i dialoghi (ma l'introduzione  del verbo "nondisse", a luogo di "pensò" è un prezioso contributo di Baricco allo stile americano); nell'adozione di locuzioni yankee del tipo "fottiti", pronta traduzione di fuck you , o doc, a luogo di dottore, oltre agli OK! ormai così imported ed entrati così tanto  nelle pagine di Baricco come nelle telefonate di tutti noi che a nessuno verrebbe voglia  di parodiarli col pollice alzato come dei top gun di Pertica Bassa; nella riproduzione fumettistica dei suoni ("Rubinetto del lavabo on, rubinetto del lavabo off", p. 194). Insomma... et in America ego!
Ma dietro questa America sdata entrata ormai nelle nostre allucinazioni visive di uomini medi e televisivi senza esserci mai stati, a volte si intravvede l'Italietta refusée: nella passione per il calcio ampiamente divisata nel volume ( e dubito che in America sbavino per le epopee delle mezzale del soccer ); in una tirata colossale contro i preti impegnati (ma Baricco si impegnerebbe per qualcosa?) che si dubita esistano in America con la rilevanza sociale e mediatica che hanno in Italia; ma anche in alcune inesattezze, che si immagina siano volute, allo scopo appunto di suggerire la metafora italiana, ossia nell'adozione delle unità di misura decimali (litri a luogo di galloni - a p.110 si parla di congelatori da 300 "litri"-, e metri e chilometri a posto di yard e miglia un po' dappertutto).
È difficile in tutta questa matassa stilistico-redazionale che si interpone tra l'autore e il lettore sbrogliare  effettivamente quale sia l'oggetto di questo libro  imprendibile, più volgarmente "cosa" vi sia  raccontato, al di là di epifanie filmiche di certe epopee americane strascritte: una per tutte quella della boxe mitica degli anni '40-'50, peraltro già novellata ampiamente da Emanuela Audisio in vecchie annate di Repubblica. Gli è che su tutto si estende il gesto verbale di Baricco, pesante e lutulento, di un manierismo esasperante nel voler adire il semplice e il casual (si prenda questo "carotaggio" di prosa baricchina, a p. 85: "Bella la puttana di Closingtown, bella. Neri i capelli della puttana di Closingtown, neri.[...]Giovane la puttana di Closingtown, giovane". Per non tacere dell'irritante disposizione dei dialoghi assolutamente filistei nel voler riprodurre il parlato senza costrutto (ma la scrittura non è la realtà!); dialoghi di mezza riga, di una parola, di coppie di ellissi (...) (...), contrapposti e alternati, labirintici. Insomma uno scialo di scrittura, un italiano finto e anabolizzato, un vuoto a perdere senza rimedio, il tutto sorretto da una prosa in fase avanzata di  macdonaldizzazione.

Alfio Squillaci


Eroica Fenice - City di Baricco: la città che vive dentro 

22/08/2016 Giovanna Fusco

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Baricco, uno scrittore di cui non si comprende mai se stia raccontando una barzelletta o stia dando una lezione di vita. A volte profetico, a volte istrionico. Dissacrante, illuminante, con una quantità innumerevole di facce senza poter definire quale sia prevalente, quale sia autentica. Forse, come i personaggi dei suoi libri, il suo intento è non farti capire dove finisca la realtà e dove inizi la finzione, un oscillare continuo tra scherzo e ironia, reale e immaginato.

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City (Baricco) ovvero la città che abbiamo dentro || Recensione - Gente di taccuino

30/11/2016 Ignazio Lax

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Per la particolare scrittura che Baricco ha usato in City, non ci sono differenze tra racconti principali o secondari: tutto il romanzo è raccontato in uno stile prettamente colloquiale, scorre via come scene teatrali o cinematografiche giustapposte, dal giardino di casa di Gould si passa alla banca di Closingtown, a Larry che corre sul lungomare come Rocky Balboa in un istante, senza stacchi, senza pause.

Che i personaggi siano loro stessi narratori, Gould e Shatzy, che le storie che inventano (e che raccontano solo a loro stessi, che non pubblicano o altro) siano così tanto al centro del libro, mi ha particolarmente colpito: la boxe ed il western sono i riflessi del carattere dei narratori, le storie che raccontano ci dicono molto su di loro. Se poco (ma sono cambiamenti importanti), in termini di trama, accade a Gould e Shatzy, attraverso i loro racconti abbiamo una finestra sul loro immenso mondo interiore, sulla “città” che hanno dentro.

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Credo che vi siano due modi di leggere City. Il primo: noncurante. Sono racchiusi tutti, uno o diversi dei seguenti atteggiamenti: lettura svogliata, saltuaria, dilatata nel tempo, disinteressata etc. Risultato: vi sembrerà di leggere stracci di testo. Sottolineo stracci. Crederete che lo scrittore abbia frullato dieci libri e ve li abbia presentati orgoglioso sotto il nome City. Nulla sembra aver senso, farete 'na faticaccia e lo odierete. Poi vi è l’altro modo:gustandoselo. Lettura costante e attenta quanto basta. CITY E' una cosa strana. Magari lo riconosci di colpo Baricco. Magari può anche essere ripetitivo in certe cose. Nei suoi termini preferiti, nella capacità di leggere filosofie universali nell'insignificante presenza di una mollica; nella capacità di non farti capire un H di quello che stai leggendo e poi risolvere tutto con nonchalance; nel passare da punteggiatura breve e fulminea, a flusso ininterrotto e discorsivo o senza punteggiatura

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