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Dialogo con Anne Dufourmantelle

(Traduzione dal francese a cura di Labcity)


L'autentico nell'età della duplicazione
La tirannia dell'autentico
Personaggi in City
Tokyo

Torino 19 luglio 1999
in Constellations, Calmann Levyi, 1999


AD: Due dei testi filosofici di questa raccolta facevano parte della tua tesi di filosofia mentre il saggio su Rossini e Mozart è stato redatto un po' più tardi. Quando tu li rileggi, senti che la ricerca che tu perseguivi è ancora tua oggi?


AB: Prima di rispondere, bisogna precisare che a Torino io studiavo con Vattimo, che era egli stesso un allievo di Pareyson, come dire che la nostra formazione filosofica era segnata dal pensiero di Heidegger. La via tracciata era quella. In quell'epoca, si lavorava molto sull'idea di ermeneutica, e dunque sulla categoria dell'interpretazione, perché quello sembrava essere il solo sbocco per uscire dall'impasse. Era un modo di mettere in movimento il pensiero. Dopo avere rinunciato alla metafisica che si poteva fare d'altro? Che ci restava? Questa categoria, l’ermeneutica, era per noi una sorta di totem.
Ma ci sono differenti modi di utilizzare la parola “interpretazione”. Anche all'epoca ce n'erano di più radicali e di più modesti. Io tentavo di trattare questa categoria nel modo più radicale possibile. Alla fine, mai completamente, perché la versione più radicale era quella di Derrida, che io amavo molto. Vattimo, che dirigeva la mia tesi di filosofia, era un po' più “moderato”. Io ho dunque lavorato su questa categoria dell’ermeneutica; all'epoca, era la cosa più interessante da mettere sotto i denti. Non ho utilizzato Heidegger, perché era un'autostrada veramente satura di traffico! Allora ho preso Adorno, che non è un maître à penser dell’ermeneutica, e così Benjamin. Quanto a Rossini… Rossini, per me, era l'esempio stesso di ciò che si poteva fare se si concepiva questo modo di pensare la teoria. Il primo dei saggi su Rossini (che apre questo libro) era un tentativo di applicare lo strumento ermeneutico in un senso differente da quello, per esempio, che perseguiva Derrida, cioè in un modo un po' più moderato, ma ugualmente radicale.

AD: Diresti che la filosofia è, come la musica, un'arte dell'interpretazione? In questo testo, tu cominci con una citazione di Benjamin che dice: «le idee somigliano delle costellazioni celesti, le si distingue meglio strizzando gli occhi» e tu prosegui, interrogando il rapporto tra filosofia e musica. D’emblée, tu dici che nell'Opera buffa, parallelamente alla scomparsa dell'idea di destino e alla dissoluzione dell'eroe, si assiste all'avvento di due nuovi paradigmi: la comunicazione e il desiderio, di cui il Cherubino di Mozart è l'illustrazione perfetta.

AB: Credo che il tipo di interrogativo filosofico che determina la riflessione ermeneutica, e in particolare quella di Adorno, sarà stato essenziale per comprendere questo secolo. Ci ha permesso di pensare il cambiamento radicale che si è prodotto all'inizio del ventesimo secolo. Erano esattamente le categorie che potevano spiegare una tale rivoluzione. I filosofi hanno ben lavorato, erano dei buoni artigiani, essi hanno trovato gli oggetti di pensiero più esatti per prendere la misura di ciò che era questa rivoluzione delle avanguardie, dopo la prima guerra mondiale. Ma io credo che la riflessione sul mondo contemporaneo chiama tutt'altro pensiero. È più complicato... non si ha più veramente delle categorie che funzionano. Le teorie di Adorno e di Benjamin sono almeno il terreno o l'orizzonte a partire dal quale si può pensare la contemporaneità, ma se io dovessi scrivere adesso qualche cosa a questo proposito, io direi che questo dispositivo teorico non è più sufficiente. Noi abbiamo bisogno di fantasia, di logica e di rigore. Abbiamo bisogno di categorie nuove. La riflessione ermeneutica è ancora utile, ma insufficiente. D'altronde non ci si impegna più come prima in questa direzione di pensiero, si è modificato il senso dell'indagine. Io posso leggere oggi la stessa cosa che leggevo vent'anni fa, quando lavoravo agli scritti di Adorno, ma la storia è andata più veloce del pensiero, molto più veloce! Insomma, non è più il mio mestiere, io sono un po' pigro, allora non penso più. Ma mi sembra, per esempio, che questo pensiero sull'obiettività del mondo descritto dall'Opera seria nel 1700, dopo dall'Opera buffa, più tardi, è assolutamente la nascita della modernità. Allo stesso modo che i due nuovi paradigmi che appaiono in quel momento nelle opere: la comunicazione e il desiderio, è interessante studiarle per comprendere l'avvento di un certo soggetto, di una certa soggettività moderna. Quando scrivevo quei testi, non ne avevo forse coscienza ma io credo oggi che è importante di interessarcene, sennò non si comprenderà come sono nate le categorie che adesso vanno a morire, e non si potrà comprendere il mondo che viene, il mondo che verrà.

AD: Cosa si è fondamentalmente spostato dopo l'inizio del secolo e la rivoluzione delle avanguardie?

AB: Quello che è cambiato, è questa piccola cosa che Benjamin aveva compreso, che è semplicemente la duplicazione delle cose, la loro ripetizione all'infinito... egli aveva avuto l'intuizione che questo fatto andava cambiare il mondo, anche se all'inizio, per lui, tutto questo non era che un modo di comprendere la modernità a partire dalla rivoluzione generata dalla fotografia. Dunque Benjamin ha inquadrato la domanda e questo, era geniale! Egli non ha pronunciato la risposta, la risposta è discutibile è molto difficile, ma la sua intuizione era eccezionale. Egli ha compreso la domanda prima di tutti gli altri, egli l’ha anticipata, ha preso in velocità la storia, e la vera domanda era proprio quella. Penso che la si trovi anche in Heidegger, quando parla della tecnica, ma va a nascondersi dentro troppe parole, dentro delle riflessioni che impediscono di isolare questo fatto, questa rivoluzione, in tutta la sua potenza.

AD: In che cosa è così rivoluzionario, giustamente, questo fatto? Dopotutto dalla filosofia greca, si è sempre pensato alla ripetizione...

AB: No, egli aveva compreso che la possibilità di una ripetizione, della ripetizione su grande scala, andava cambiare il nostro rapporto con la verità dell'autenticità. È divenuta una cosa enorme... voglio dire che, forse, il problema da comprendere oggi è: cosa è l'autenticità? Per esempio, quando Adorno parlava della scrittura e quando Benjamin rifletteva sulla fotografia, essi cercavano qualche cosa che aveva un rapporto con la verità, con l'autenticità, e lo scopo malgrado tutto, era di salvare un rapporto con la verità... con l'unicità... Sì, per noi, è il problema maggiore: noi ripetiamo tutto e non abbiamo praticamente più un rapporto diretto con l'autenticità. Ma è ancora più forte! L'autenticità, non è più un valore.

AD: è un valore perduto, voglio dire in che senso, per te, non bisognerà cercarlo come un'origine perduta...

AB: Sì, credo che ognuno dei nostri sforzi per ritornare all'autenticità è una sciocchezza.

AD: Allora, tu non sei heideggeriano!

AB: Probabilmente è tempo per noi, adesso, di fare la strada più lunga, di prendere il tempo della curva. Se per arrivare all'autenticità, la via più diretta è ormai impraticabile, allora bisogna imboccare il cammino più lungo è andare ogni giorno un po' più lontano... c'è un certo grado di artificio che è più vicino alla verità che la pseudo-autenticità che rivendicano coloro che dispregiano l'artificio. Dunque, se il problema che è il nostro oggi è quello del rapporto tra la verità è l'artificio, non sono i filosofi che hanno concepito le categorie dell’ermeneutica che possono risolverlo, né lo stesso pensiero; quello appartiene a un'altra generazione... si può ancora ricorrere a delle categorie che sarebbero a immagine della saggezza dei nostri padri, come il coraggio, la volontà, eccetera. Ma se si è veramente compreso l'illuminismo, ciò che c'è di bello e ciò che c'è d'orribile in questo rivolgimento del mondo e dei valori che ha avuto luogo in quel momento della storia occidentale, nel diciottesimo secolo, si potrà comprendere che si è a confronto con un nuovo enigma.

AD: Si può dire che il progresso della tecnica, ma anche il nazismo sono entrambi il prodotto di una certa razionalità dell'illuminismo. Una razionalità divenuta folle, ma una razionalità pur sempre... e essa ha dato vita a un certo tipo di barbarie che ci è propria.

AB: Esattamente, ed è la lezione che ne trae Adorno. È anche la ragione per la quale egli temeva il maggio del 68, la rivolta degli studenti e il resto... egli aveva compreso che non si poteva assolutizzare ciò che è. Non c'è più metafisica, allora “ciò che è” diviene la verità. È pericoloso, ed è un pericolo sortito direttamente dall'illuminismo. Adorno ha cercato una maniera d'essere fedele, sia all'assenza della trascendenza, sia a una sorta di vigilanza, di difesa contro ciò che può arrivare quando il reale diventa “tutto”.
La filosofia di Adorno, era un'avventura intellettuale molto bella... l'essenziale è che abbia potuto trasmettercela, perché noi siamo disarmati di fronte allo stesso problema: sia che noi ritorniamo alla metafisica, sia che noi facciamo del reale (ma quale?) una totalità. Noi abbiamo bisogno di cercare qualcosa d'altro. Quando ho riletto Adorno, ho ritrovato delle frasi molto commoventi perché assurde. Egli dice una cosa e il suo contrario, e il contrario del contrario; è un modo di cercare, come fine di questo viaggio, in una logica paradossale, una categoria che potrebbe agire. Egli cerca qualche cosa che non è la verità, qualche cosa che non è semplicemente il reale...

AD: C'è in Seta, per esempio, un'utilizzazione della ripetizione narrativa molto particolare che tu fai con quello scarto quasi impercettibile tra due paragrafi in cui la stessa sequenza di frasi è ripresa a una o due parole …è lo stesso passaggio, ma appena un po' differente ogni volta, e per mezzo di questi micro spostamenti, è finalmente una cosa molto più importante che slitta. É che forse si è in diritto di attendere dalla letteratura, questo piccolo ma essenziale spostamento dello sguardo. Ancora c'è quello che tu hai scritto su Rossini dicendo che attraverso le volute più virtuose dell'ornamento, si intende finalmente una voce neutra, molto vicina a una sorta di trama oggettiva del racconto (Adorno direbbe, “un’immagine oggettiva del mondo”). Rileggendo i suoi scritti filosofici, mi è sembrato di scorgere come una prefigurazione di ciò che tu hai cercato e forse risolto, in seguito nella scrittura del romanzo.

AB: Hai ragione, soprattutto in ciò che riguarda la seconda osservazione, è il cuore delle cose, penso. Sì, qualche volta, mi dico che è l'essenziale.

AD: Tu scrivi su Rossini: «attraverso gli arabeschi virtuosi, è una scrittura del mondo che è all'opera […] I personaggi, così eccentrici, metaforicamente parlando, sono tutti uguali... »

AB: Per Rossini, è perfetto! E ciò ti dà un'indicazione su ciò che mi sembra giusto nella categoria della scrittura. Ciò che adoravo in Rossini, era la sua maniera di ricercare l'artificio con un modo di fingere la verità, e così di recarsi più vicino alla verità. Per me, è l'esempio perfetto di questo rapporto tra l'artificio e la verità. È molto difficile trovare qualcuno che possa comprenderlo, perché i filosofi che utilizzano queste categorie per interpretare il pensiero di Adorno o di Benjamin non le applicano a un altro campo. Quando parlo ai musicologi, essi preferiscono non comprendere niente. D'altronde io stesso, non ho potuto afferrare questo rapporto tra artificio e verità che a partire dall'insegnamento filosofico. E quando ascolto Rossini, è quello che percepisco. È molto difficile da rendere questo in un romanzo, d'altronde non ci provo, ma c'è qualche cosa che si mette in movimento in quella direzione.

AD: Mi ha colpita l'ultima pagina del tuo testo su Mozart e Rossini: «con Rossini è scomparsa, nel mondo dell'opera, la prospettiva di una via d'accesso debole e gioiosa alla verità. Cendrillon e l'ultima eroina che diviene folle di gioia. Dopo lei, tutte le altre quando ciò sarà loro permesso, perderanno la ragione sotto l'effetto del dolore»... É Nietzsche, quando si rivolse verso Bizet rigettando Wagner, che disse: «credevo che la verità era nella profondità tragica, mentre ella è nella leggerezza.»

AB: É la stessa cosa, sì... è la stessa esperienza che egli espose ne La Gaia scienza. Aveva scelto Bizet, e non amava Rossini, peccato! Ma è la stessa cosa, finalmente, egli esprime: o tu vai fino al fondo per andare a stanare la verità, ed è orribile, o imbocchi l'altra via, che è una via di liberazione, e ti rifiuti di credere che è nell'oscenità tragica che si svelano le cose.

AD: C'è anche l'idea di una lucidità “malgrado tutto”. É scorgere la dimensione tragica dell'esistenza, ma preferirle l'esultanza.

AB: Nietzsche ha scritto molto su Wagner, sulle ragioni per le quali non amava più la sua musica, ecc., ma alla fine della sua vita egli riassume questo in una linea: «è un affare di gusto». E io credo che finalmente, per noi come per gli animali, è un istinto.
C'è un'obiezione che sento frequentemente su ciò che scrivo: mi si rimprovera di usare l’artificio nella scrittura. Mi si dice: «sì, questo va, questo funziona, c'è dello stile, ma si sente l'artificio». Si pensa che lo scrittore deve essere nel vero, si immagina che egli deve raggiungere l'autenticità. Dire di una scrittura che è nell'artificio, è una critica che, se fatta intelligentemente, è temibile. Ma se si vede l'artificio altrimenti, la riflessione si inverte.
É l’autenticità che noi vogliamo dal mondo libero? È un po' come quelli che pensano di ritrovare l'autenticità della musica suonando solo degli strumenti antichi, è un'idea completamente falsa. Io non so che pensare di ciò che scrivo, ma io mi dirigo istintivamente verso una certa artificialità, per mezzo della quale si può raggiungere una certa verità. É ciò che mi hanno insegnato Adorno, Benjamin, Rossini.

AD: Conosci la definizione dello stile di Céline? Spezzare un bastone al di sopra della superficie dell’acqua affinché nel riflesso appaia dritto…

AB: Sì, la conosco. Ma è ancora un'illusione, perché lui stesso è lo scrittore che è il più vero apparentemente... tutto è un artificio, tutto è fuori dalla vita. La vita non va a capo, mentre noi, noi andiamo a capo. È poi, c'è una pagina 1,2,3,4,5... La vita non è fatta così. Io non so per la tua, ma la mia non è fatta così. Peccato! Allora, che c'è ancora da salvare? Niente. È uno scandalo.

AD: La tirannia dell'autentico ti sembra propria del nostro tempo?

AB: In ogni caso, io la detesto. Nel mondo dei libri, è una battaglia dura. La maggior parte dei lettori hanno l'abitudine di identificare la cultura del libro con una vecchia cultura dell'autenticità che si dovrebbe difendere, in rapporto alla cultura cinematografica per esempio, o quella delle arti minori fondate sulla duplicazione o la ripetizione di un modello. Il mondo del libro resta questo castello assediato dove sono conservate l'autenticità, la verità... non sono solamente i miei libri o il mio stile che sono in discussione qui, ma la funzione del libro in generale. Io credo che la civiltà del libro, se la concepisci in una certa maniera, è finita. Sta a noi adesso di ricreare un'altra civiltà del libro, ma siccome non ci si dà il tempo, né l'intelligenza, si discute sul tale o talaltro libro, per sapere se è buono o cattivo.

AD: Forse non è il libro come oggetto che è in via di estinzione ma un certo rapporto con la lettura...

AB: No, il libro, non è in pericolo, c'è già il computer, continua progressivamente la sua metamorfosi. È la civiltà del libro che va a cambiare. I lettori che comprano dei libri sono quelli che vanno più velocemente con il secolo, essi leggono!
Gli scrittori, loro, vanno più lentamente, ma il massimo della lentezza, sono i critici! Essi non hanno categorie, immaginazione, voglia.

AD: In City, il tuo ultimo romanzo, tu dici che il romanzo è come il quartiere di una città dove i personaggi sarebbero le strade, e ci fai raggiungere uno spazio interiore che non è psicologico, che non si informa di ciò che pensano o di ciò che mobilitano i personaggi, ma che è dato, mi sembra, in una relazione a due tra due esseri o tra qualcuno e un paesaggio, un oggetto, un elemento del racconto. La libertà di scrittore che tu esprimi là è come questa "musica bianca" che tu descrivi in Seta, tenue, sottile, vicina a una trama oggettiva del mondo.

AB: In termini filosofici, è la relazione del pensiero con il vuoto, è l'attitudine a lavorare con strutture che non sono troppo marcate, ma ciò non basta più... anche in ciò che è debole, diceva Vattimo, bisogna trovare il sostrato, l'elemento portante del testo, la forza.

AD: Si ha l'impressione che è in ciò che si tesse nel dialogo che unisce un personaggio e un elemento del paesaggio, con il mare, con il vento, con un binario ferroviario interminabile, che si tiene il romanzo. Questo spazio che è creato là diviene esso stesso il protagonista della storia, come la fanfara che tu descrivi in Castelli di rabbia, dove ogni membro del coro e responsabile di una sola nota, dove il direttore d'orchestra deve agire con questa partizione umana; è una certa immagine del mondo...

AB: É una cosa chimica, una cristallizzazione. C'è l'idea che lo scrittore deve sottrarre un po' della sua forza al personaggio, sennò ne farà un eroe, un soggetto nel senso hegeliano del termine. Ora, se gli si preleva un po' di questa forza, si deve trovare qualcosa d'altro a questo personaggio, e ciò, è interessante. Se non è " lui", "lei", o un altro, che resta nella storia? È molto bello, perché lavori in un paesaggio che tu non conosci, dove tu cerchi dei punti di forza differenti. Una volta, è la ruota, o proprio il mare, mentre tu organizzi la vita vicino all'acqua perché si ha bisogno di essa, ma siccome tu non puoi bere quell'acqua allora non vale più niente, allora tu vai ad affrontare il vuoto su un altro punto, ma tu continuerai a seguire la linea di forza.
È un'immagine per tentare di dire ciò che è veramente straordinario nella scrittura, ed è la mia passione. Io non conosco questo paesaggio. Io sono sempre in cerca, come l'animale che va solo a cercare la vita dove essa è, e che la cercherà ovunque. Se si perde la forza, si fa qualche cosa che non resta... sarà un fumetto, ci sarà lo spettacolare e niente altro. Bisogna cercare la forza come le correnti sottomarine, sapere che si lavora con qualcosa che non esiste ancora... presentirlo, infatti, come lo presentivano i primi esploratori che andavano scoprire l'Africa. Essi avevano delle carte geografiche con appena il disegno delle rive e all'interno: terra incognita. All'interno, non c'è più niente di scritto, ma forse ci sono le sorgenti dei fiumi... io lavoro un po' così, e se trovo dei lettori che vengono con me in questo viaggio, è meglio...

AD: La forma e più limitativa in filosofia che nella narrazione romanzesca. In filosofia, credi che si possa lavorare in questa maniera con l'ignoto?

AB: Non so, perché ho lasciato la filosofia da molto tempo, e ho lavorato unicamente con le cose che conoscevo. Il problema che noi avevamo in quel momento, era di stabilire una mappa differente di un territorio che si conosceva già. Era un lavoro da geografo io impiegavo le categorie messe a punto da Benjamin e Adorno nel campo della musica, quindi potevo aspettarmi di scoprire una città, chissà?, o un quartiere. Se ascolti Rossini attentamente, per esempio, puoi forse intenderlo nel modo in cui io l’ho avvicinato ma è come scoprire un nuovo quartiere di una città attraversata parecchie volte. Sì, credo che si può provare questo in filosofia: lavorare con l'ignoto.

AD: Tu scrivi "la filosofia non incontra la verità al di fuori, è la messa in scena del linguaggio, attraverso la ripetizione, che nella sua progressione si rivela come verità." È un'idea che si incontra anche in Kierkegaard, per il quale la filosofia non è una risposta al perché della verità ma al come della verità. Una delle domande che volevo porgerti, è: se pensare è stare in una certa vigilanza, come diceva Adorno, non è anche per evitare che l'orrore si ripeta, e affinché la storia non si richiuda sull'oblio?

AB: Sì, sicuro... io ho lavorato su questo, ho pensato di scrivere su ciò che hai appena evocato, la vigilanza, l’interrogarsi. Mi interrogavo su ciò che bisognava fare, non filosofia, ma una sorta di ricerca di una teoria per le critica. Solo penso che colui che crea delle opere non può essere il proprio critico. Io non scriverei mai un libro sulla scrittura, ma mi piacerebbe fare un piccolo saggio su ciò che ho scoperto durante vent'anni sul tema dell'autenticità e della questione della ripetizione. D'altronde, c'è anche questa categoria della rappresentazione presa nel senso dello speculare e dello spettacolare, sulla quale bisognerebbe interrogarsi.

AD: La duplicazione su grande scala degli oggetti e delle immagini è stata resa possibile dalle avanzate tecnologie della scienza, questo ci mette pertanto in pericolo, come si crede spesso?

AB: No, per niente! Se si ha l'obiettività di leggere ancora una volta la storia della nostra cultura, noi vedremmo che molte delle opere essenziali sono apparse in una struttura di ripetizione, a partire da un modello commerciale. L'idea, per esempio, che noi siamo entrati in un’era economica che non sarebbe mai esistita prima è falsa. Mozart e Rossini lavoravano esattamente come si lavora a Hollywood! Cioè in un modo apparentemente esclusivamente commerciale, su ordinazione, e con numerosi vincoli, veramente idioti. Per esempio, Rossini doveva cominciare le sue opere con l'entrata in scena dell'eroe maschile accompagnato dal coro, e doveva terminare con un monumento alla gloria del femminile, e poi c'era il finale del primo atto, obbligatorio semplicemente perché dopo la gente andava a bere e mangiare! I compositori, ma anche i drammaturghi, dovevano seguire queste regole per un pubblico molto avveduto, ed è in questa prigione che essi hanno realizzato le loro opere, e questo è straordinario! Non si deve immaginare Mozart, Beethoven, Rossini o Verdi come degli autori liberi con la loro immaginazione, la loro ispirazione, la loro fantasia. Niente di tutto ciò! Essi erano delle macchine per fare soldi, e sotto questo vincolo, essi erano geniali. Essi sono riusciti in questo tour de force. Anche Beethoven quando componeva una sinfonia, aveva della gente che lo pagava e che esigeva in cambio una cosa molto particolare. Era un artigiano. Se ti si domanda un tavolo, tu devi fare un tavolo e non una sedia, e quando si ordinava a Beethoven una sonata per piano, egli realizzava un oggetto musicale diverso da un quartetto o da una sinfonia. Pertanto, quale rivoluzione! Dunque, non è oggi che si pone il problema dello standard, del modello, della commercializzazione, in breve, della ripetizione - non è un problema per l'arte. Ho provato a scrivere un po' su questo tema ne L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, ma quest'idea disturba molto.

AD: Senza dubbio perché ciò fa paura: la moltiplicazione delle tecniche, Internet, la biologia applicata all'umano, la duplicazione della realtà dell'immagine, eccetera. Proiettiamo sempre davanti a noi le nostre paure, ma questo non dice niente sulla capacità dello spirito umano di rispondervi. C'è questa storia che si racconta proposito del marchese de Sade: quando fu incarcerato alla Bastiglia, egli pretese che si installasse all'interno della sua cella una seconda porta - una porta da cui poteva aprire o chiudere il chiavistello a suo piacimento. È un'altra interpretazione della libertà sotto vincolo...

AB: É geniale! Mozart stesso sapeva ciò, lo sapeva bene, non s'immaginava di essere un uomo libero con l'ispirazione degli angeli, scriveva per un mecenate. Nello stesso tempo, ha rivoluzionato la forma del linguaggio...

AD: É l'eredità del pensiero romantico che ci ha dato quest'immagine del genio solitario, necessariamente incompreso.

AB: Ma è falso! La libertà della prigione, è sempre il pubblico. Si crede che i grandi non sono ascoltati, che non hanno successo. Al contrario, i grandi sono arrivati all'apice grazie al pubblico. Mozart, era il più grande, non durante tutta la sua vita, ma quando ha composto le nozze di Figaro, il pubblico ha gradito. Ora, era una cosa nuova all'interno di un modello rigido, uno standard assolutamente puro. Ma egli ha fatto un'opera straordinaria e il pubblico ha gradito. Prendi la Quinta di Beethoven, quando l'hanno suonata per la prima volta, nel pubblico della gente è svenuta, per la meraviglia, il piacere, l'emozione. La libertà di un'artista, è il pubblico. Sicuro, c'è sempre chi non avrà avuto successo, ma mai quelli che fanno le rivoluzioni... quando il collettivo si muove, quando fa questo movimento collettivo enorme d'entrare in risonanza con un'opera, è che qualche cosa d'immenso è in gioco. Quando una rivoluzione si annuncia, quando si entra in un'altra civiltà, si cerca se c'è un nome... tu ne troverai forse uno o due, ma quelli sono. E il pubblico li ha riconosciuti. Questi artisti hanno prodotto qualche cosa che è la scoperta di un'altra civiltà, e il pubblico lo ha confermato; ha seguito passo passo questa rivoluzione. Pensa a Guernica, di Picasso... prendi un bambino e l'idea della guerra, comprenderà. Guernica, è ormai per sempre inscritta nell'immaginario collettivo.

AD: Tu sei ottimista... chi, secondo tre, potrà mettere l’arte o la cultura in pericolo, niente?

AB: C'è una cosa che vedo, è che in Occidente, adesso, non c'è più una cultura della rivoluzione. Noi abbiamo ormai una cultura della riforma. E dunque mi domando se mio figlio potrà comprendere la parola "rivoluzione". Diventerà adulto in un mondo che non pronuncerà più questa parola? La riforma, è esattamente il contrario della rivoluzione. È esprimere l'ipotesi che si possa cambiare senza provocare né dolore né morte.

AD: Come produrre l'illusione di una "guerra pulita".

AB: Esattamente, ed è ormai un'idea che si è imposta con una grande rapidità. Una guerra pulita, senza morti, senza dolore, è un simbolo così potente... che lavora molto più forte che migliaia di libri. La guerra, che è la peggiore delle cose, diventa rispettabile! È assai terrificante. Dunque, non c'è più al livello politico, filosofico o ideologico, di realtà rivoluzione. Ora, la rivoluzione, è uno choc di civiltà. E se si perde la possibilità di una qualunque rivoluzione, tutto diventa più difficile, perché qualcosa di contro natura si stabilisce. Adesso, bisognerà marciare un passo dopo l'altro senza che nessuno si ferisca...

AD: La riforma, contrariamente alla rivoluzione, vuole venire a capo della morte?

AB: Allora sarà veramente difficile! Noi abbiamo quest'idea che siamo talmente civilizzati che possiamo "fare" senza il dolore. Le necessità della rivoluzione, della storia, è un'idea difficile da difendere. Ma pensa alle piccole cose... ai libri, per esempio, tu non scrivi un libro se tu non uccidi un po' gli altri. C'è questa cosa che diceva Celine: "io scrivo in un modo in cui nessuno potrà più scrivere." Allora, qualche volta, penso a quest'uomo che scrive e mentre scrive, io penso a un altro uomo che scrive anche lui e ripone la sua macchina da scrivere riconoscendo: bene, io non posso più fare niente. È vero, Celine ha affatto una rivoluzione, e questa rivoluzione ha ucciso degli scrittori, ne sono sicuro. E quando scrivo, spero che ci sia qualcuno che ripone la sua macchina... non è un'apologia della violenza, né del dolore, ma spero che un giorno qualcuno scriverà qualche cosa e quando la leggerò, staccherò la spina del mio computer e farò altre cose. Mi piace questo, le rivoluzioni, ma noi non abbiamo più questa cultura, in Occidente. Pertanto ci sarà bisogno ancora delle rivoluzioni...

AD: Si vorrebbe che il passaggio da una civiltà un'altra si produca quasi senza rendersene conto, senza più guerra né dolore. Ora, il mondo ne é una flagrante smentita. Si vedono risorgere delle fiammate di violenza terrificanti, e negli individui stessi, c'è anche una grande violenza, un'angoscia spesso inesprimibile.

AB: L'angoscia è un paesaggio nel quale si può costruire qualcosa, ma è anche una malattia che vi rode...

AD: Direi forse che tu sottrai forza all'angoscia per risponderle... a meno di non voler vedere, che è spesso proprio dell'essere umano, allora comincia la chiusura nella depressione.

AB: Perché andiamo a scegliere una risposta all'angoscia che ci ucciderà, finalmente a fuoco lento? L'uomo è idiota in questo caso, cerca una soluzione che è peggiore del male...

AD: Era l'ipotesi di Freud... alla fine della sua vita, pensava che la pulsione di morte era la più forte...

AB: Faccio fatica con la psicanalisi. Trovo che spesso, alla fine del processo psicanalitico, non c'è più elasticità. Hai l'impressione che questi esseri sono dei castelli. Tu puoi levare un’armata contro un castello forte, tiene bene, è poi un giorno tu togli una sola pietra, e l'edificio intero crolla! L'impressione che mi danno le persone in analisi e di passar un tempo infinito a conoscere le pietre che non bisogna toccare, se no per essi è la fine.

AD: Mentre al contrario qualcuno che attraversa la sofferenza dovrebbe restare in contatto con il luogo di questa fragilità, per riprendere la tua metafora, come gli artisti lavorano con l'oscurità. O i musicisti... sei restato vicino all'universo della musica?

AB: Molto tempo fa ho scritto per la critica musicale, e ho parlato delle opere. Cercavo qualche cosa in quel mondo e ho compreso che essi amavano la loro malattia. La loro passione per un passato che non è mai stato. È un'idea che essi hanno, la nostalgia di un passato immaginario, è un modo di fuggire dal presente. I critici vanno a pagare la loro perversione, ognuno sceglie la sua propria malattia. Potete andare al concerto, ascoltare Schubert, fremere, e pensare che niente è esistito dopo, non è grave, costa appena un po' caro allo Stato! C'è una ragione politica, o piuttosto civica, che li mantiene in questo universo chiuso, ed è un po' uno scandalo, ma infine ci sono cose più gravi... io, ascolto musica, suono il piano, mi basta.

AD: Come è stato accolto il tuo saggio sulla musica?

AB: In Italia, molto bene dai giovani, certi compositori, e una parte del pubblico. Ma presso i grandi della musica, silenzio assoluto. Segna, è l'arma più formidabile, se vuoi occultar un saggio, offrire un silenzio eccezionale in risposta... all'estero è differente. Ogni paese ha la sua propria tradizione musicale. In Germania, in Italia, in Francia, c'è una forte tradizione della musica d'avanguardia, in Spagna molto meno. Negli Stati Uniti, non è ancora stato tradotto. Sono curioso di vedere come sarà accolto.

AD: Che pensi del rapporto tra questo fenomeno della ripetizione e il presente, o piuttosto della nostra capacità o della nostra incapacità di vivere il presente...

AB: Bella domanda, posso fare un altro libro! Ho delle idee, ma è una costellazione molto vaga... per me, c'è un'esperienza che è stata straordinaria, è il mio viaggio in Giappone. In Giappone, c'è una civiltà dell'artificio che è geniale. Qui, in Occidente, si semplifica dicendo che i Giapponesi fanno copie di tutto, ma non è così, è molto più affascinante. Il Giappone è una sorta di laboratorio dove si trova il futuro, in direzione di questa ripetizione generalizzata, e credo che sia il nostro destino. Quando tu vivi lì, vedi ciò che c'è di orribile e ciò che c'è di affascinante in questo processo.

AD: C'è quando anche questa onnipresenza dell'economia mondiale che si prefigura nell'avvenire...

AB: Te l'ho detto, spesso penso che era la stessa cosa prima. Forse non era così differente per Brahms, per Flaubert, per Stendhal. Adesso, è su una più grande scala...
in Giappone, se ti guardi intorno, ciò che vedi, nove volte su dieci, è duplicato: c'è una ragazza che assomiglia a Madonna, e poi un'altra ragazza ricalcata su un altro modello... allora, tu guardi ancora e scorgi nelle vetrine dei ristoranti le copie esatte dei piatti che mangerai. È ciò che tu guardi che è autentico, e non l'inverso, il piatto che tu gusterai. È ciò che è identico alla copia che sarà giudicato buono o no. Allora esaminando il tuo piatto, tu puoi dire: "Ah no, non è identico a ciò che ho visto nella vetrina." Prima, c'è la copia, e poi viene l'autentico, che è la copia della copia. Ci sono dei video dappertutto, delle immagini, degli schermi, non si può più distinguere dove né quando è stato preso d'originale, è una sorta di droga collettiva. In Giappone, sono pazzi per l'opera. Perché? Non comprendono niente, i sentimenti sono differenti, non conoscono i sentimenti come noi li esprimiamo con i nostri codici della nostra lingua. Come quando noi guardiamo il kabuki, si vede bene allora è una civiltà dell'artificio: il canto non è naturale, né la danza. È una grande macchina che lavora a dei livelli differenti. I giapponesi, non li conosci mai veramente, anche se ti apprezzano e ti aprono qualche porta. Tu non sei mai invitato da un giapponese. Tu non conosci la loro casa, ed è molto simbolico, perché se tu vuoi conoscere qualcuno tu osservi il suo interno, il salone, la camera. In Giappone, questo spazio non esiste per te, essi ti danno l'indirizzo dell'ufficio, ma tu non sai dov'è il loro appartamento; il cuore è nascosto. Solo tutto il resto è di una forza incredibile, e se tu cammini a Tokio, tu capti questa forza.

AD: E da dove viene, da quest'effetto di duplicazione di infinito?

AB: Sì, da questa duplicazione maniaca di tutto. La cosa più straordinaria, è che essi sono a Tokio nel cuore di un'isola, e in ogni sezione di quest'isola, tu puoi trovare il mondo.

AD: É il nostro avvenire?

AB: É una direzione dell'avvenire, e della ragione per la quale ti dico che io cerco dove è la forza. Dov'è per un adolescente che ha 16 anni? Nello spirito di questo giovane, uomo o donna, c'è il mondo. Sicuramente, laggiù, in Giappone c'è una civiltà strana, per noi sarà differente, ma la direzione è quella.

AD: E, secondo te, non è una forza illusoria?

AB: É una forza, che vuoi fare, essi vivono per quello, di quello, essi sono il mondo, il mondo è dappertutto e io non posso immaginare il risultato di questa apocalisse. Bisogna riflettere, ma è laggiù che trovo la forza, il nostro avvenire domani somiglia a quello. Noi, noi veniamo da un mondo molto differente... tra il nostro passato e questo futuro possibile, c'è una grande distanza, difficile da immaginare ancora...