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O guardi o giochi


Dietro alla casa di Gould c'era un campo da pallone
Taltomar
O guardi o giochi
Il professore non ricomparve più al campo
L'immobile film di un vecchio che se ne andava
La scuola Renemport
Il calcio al pallone
Epilogo

Patchwork

Dietro alla casa di Gould c’era un campo da pallone

Dietro alla casa di Gould c’era un campo da pallone. Ci giocavano solo ragazzini, i grandi stavano in panchina a urlare, o sulla piccola tribuna in legno, a mangiare e urlare. C’era l’erba dappertutto, anche davanti alle porte e a centrocampo. Era un bel campo da pallone. Gould, Diesel e Poomerang stavano ore a guardare, dalla finestra della camera da letto. Guardavano le partite, gli allenamenti, tutto quello che c’era da guardare. Gould prendeva appunti. Aveva una sua teoria. Si era convinto che a ogni ruolo corrispondesse un preciso profilo morfologico e psicologico. Lui poteva riconoscere un centravanti prima ancora che si cambiasse e mettesse la maglia numero nove. Il suo pezzo di bravura era la lettura delle foto delle squadre: le studiava un po’ e poi sapeva dirti in che ruolo giocava quello coi baffi e chi era l’ala destra. Aveva una percentuale di errore del 28 per cento. Lavorava per arrivare sotto il dieci, allenandosi ogni volta che poteva sui ragazzini del campo sotto casa. Faticava ancora molto sui terzini, perché identificarli era relativamente semplice, ma capire quale giocava a destra e quale a sinistra presentava delle significative difficoltà. Di solito il terzino destro era fisicamente più compatto e psicologicamente più rudimentale. Aveva un approccio razionale alle cose, e procedeva secondo deduzioni logiche, generalmente prive di varianti fantasiose. Si tirava su le calze quando gli cadevano, e di rado sputava per terra. Il terzino sinistro invece tendeva col tempo ad assumere su di sé tratti del suo diretto antagonista, l’ala destra, notoriamente elemento caratteriale, imprevedibile, con forti tendenze anarchiche e notevoli fragilità mentali. L’ala destra tramuta la sua zona del campo in una terra senza regole dove l’unico riferimento stabile è la linea laterale, una striscia di gesso bianco che egli cerca con ossessiva disperazione. Il terzino sinistro, che in quanto terzino dispone di una dotazione psicologica di base piuttosto votata all’ordine e alle geometrie, è costretto ad adattarsi a un ecosistema per lui scomodo, ed è dunque, per vocazione, un soccombente. La necessità di riaggiornare continuamente le sue reazioni a schemi del tutto imprevedibili lo condanna a una perenne precarietà spirituale, e spesso anche fisica. Questo può spiegare la sua tendenza, facilmente rilevabile, a tenere i capelli lunghi, a farsi espellere per proteste e a farsi il segno della croce al fischio di inizio. Detto questo, distinguerlo da un terzino destro, in una foto, è pressoché impossibile. Gould, a volte, ci riusciva.

Diesel guardava perché gli piacevano i colpi di testa. Provava un piacere tutto particolare a sentire l’impatto del cranio contro il pallone, e ogni volta che accadeva diceva Pazzesco, tutte le sante volte, con un sorriso buono sulla faccia. Pazzesco. Una volta un ragazzino, là sotto, colpì di testa, la palla finì sulla traversa, rimbalzò indietro, il ragazzino la ricolpì di testa, centrò il palo, si tuffò in avanti e andò a raccogliere la palla di testa prima che toccasse terra, sfiorandola appena e mettendola in rete. Allora Diesel disse Davvero pazzesco. Le altre volte, invece, diceva solo Pazzesco.

Poomerang guardava perché cercava un’azione che aveva visto anni prima, alla tivù. A suo parere era stata così bella che non poteva essere sparita per sempre, doveva certamente vagolare per tutti i campi del mondo, e lui la stava aspettando, lì, su quel campo di ragazzini. Si era informato sul numero di campi da pallone che esistono al mondo - unmilioneottocentoquattro - ed era perfettamente consapevole che le possibilità di vederla transitare proprio da lì erano minime. Ma in base a un calcolo effettuato da Gould, non erano comunque molto minori di quelle che ci sono a nascere muti. Dunque, Poomerang la aspettava. Di preciso, l’azione era la seguente: rinvio lungo del portiere, il centravanti salta sulla tre quarti e allunga il pallone di testa, il portiere avversario esce dall’area e calcia al volo, il pallone vola indietro oltre centrocampo, salta tutti i giocatori, rimbalza ai margini dell’area, scavalca il portiere stupefatto e si insacca a fil di palo. Da un punto di vista squisitamente calcistico, si trattava di una bizzarria deplorevole. Ma Poomerang sosteneva che sotto il profilo puramente estetico aveva visto poche volte qualcosa di più armonioso ed elegante. “Era come se tutto fosse finito in un acquario - nondiceva, cercando di spiegare -, come se tutto si muovesse a mollo nell’acqua, senza spigoli e lentamente, col pallone a nuotare nell’aria, senza fretta, e i giocatori tramutati in pesci, a guardare in su a bocca aperta, ruotando tutti insieme la testa a destra e sinistra, svagolati e dispersi, col portiere a branchie spalancate mentre il pallone lo scavalcava, e alla fine la rete di un pescatore furbo, a raccogliere il pesce palla e gli occhi di tutti, pesca miracolosa nel silenzio più assoluto da abisso marino su una distesa di alghe verdi rigate in bianco da un palombaro geometra.” Era il sedicesimo del secondo tempo. La partita finì due a zero.

Taltomar

Ogni tanto Gould scendeva e andava a piazzarsi ai bordi del campo, dietro la porta di destra, di fianco al prof. Taltomar. Passavano decine di minuti senza dirsi niente. Sempre con gli occhi fissi verso il campo. Il prof. Taltomar aveva una certa età e, dietro le spalle, migliaia di ore di calcio guardato. Del gioco gli importava relativamente poco. Lui osservava gli arbitri. Li studiava. Teneva sempre stretta tra le labbra una sigaretta senza filtro, spenta, e biascicava periodicamente frasi del tipo “lontano dall’azione”, o “regola del vantaggio, coglione”. Spesso scuoteva la testa. Era l’unico ad applaudire a cose come un’espulsione o la ripetizione di un rigore. Aveva alcune discutibili certezze che compendiava in una massima con cui da anni chiosava qualsiasi discussione: “il mani in area è sempre volontario, il fuorigioco non è mai dubbio, le donne sono tutte puttane”. Sosteneva che l’universo era “una partita giocata senza arbitro”, ma a modo suo credeva in Dio: “fa il guardalinee, e sballa tutti i fuorigioco”. Una volta, semiubriaco, aveva ammesso in pubblico di aver fatto l’arbitro, da giovane. Poi si era chiuso in un misterioso silenzio.

Gould gli attribuiva, non a torto, una conoscenza smisurata del regolamento, e andava a cercare, da lui, quello che non gli riusciva di trovare negli insigni accademici che quotidianamente lo allenavano al Nobel: la certezza che l’ordine fosse una proprietà dell’infinito. Così, quello che accadeva fra loro era questo:

I. Gould arrivava, non salutava nemmeno e si metteva di fianco al professore, fissando il campo.

2. Per decine di minuti non scambiavano né una parola né uno sguardo.

3. A un certo punto Gould, continuando a fissare il gioco, diceva una cosa tipo: “Cross da destra, il centravanti colpisce al volo di interno destro, centra in pieno la traversa che si spezza in due, la palla carambola contro l’arbitro, finisce tra i piedi dell’ala destra che di piatto destro tira a fil di palo dove un terzino blocca con una mano e poi libera alla viva il parroco”.

4. Il prof. Taltomar prendeva tempo sfilandosi dalle labbra la sigaretta e scuotendo via una cenere immaginaria. Poi sputava per terra qualche briciola di tabacco e mormorava piano: “Partita sospesa fino a risistemazione avvenuta della traversa, con conseguente ammenda alla società ospitante per incuria nella manutenzione del terreno. Alla ripresa del gioco, rigore alla squadra ospite e cartellino rosso per il terzino. Una giornata di squalifica, se non è diffidato”.

5. Per un po’ continuavano, senza commenti, a fissare il campo da gioco.

6. A un certo punto Gould se ne andava dicendo “Grazie, professore.”

7. Il prof. Taltomar mormorava, senza girarsi, “Stai bene, figliolo”.

Accadeva più o meno una volta la settimana.

A Gould piaceva molto.

I bambini hanno bisogno di certezze.

Un’ultima cosa importante, succedeva in quel campo. Ogni tanto, mentre Gould stava lì col professore, capitava che un pallone rotolasse oltre il fondo, proprio verso di loro. Alle volte gli passava proprio accanto e si fermava qualche metro più in là.

Allora il portiere faceva qualche passo verso di loro e gridava: “Palla!”. Il prof. Taltomar non muoveva un muscolo. Gould guardava il pallone, guardava il portiere, e poi rimaneva immobile.

- La palla, per piacere!

Spaesato, finiva per fissare nel vuoto, davanti a sé, rimanendo immobile.

[…]

Bordi del campo, dietro la porta di destra. Stavano fermi lì, a guardare. Il prof. Taltomar con la sua cicca spenta tra le labbra. Gould con un cappello di lana in testa, e le mani in tasca.

Minuti e minuti.

Poi Gould, continuando a fissare il gioco, disse:

- Pazzesco temporale sul campo. Ventesimo del secondo tempo. Cross da sinistra, il centravanti della squadra ospite, in evidente fuorigioco, stoppa di petto, l’arbitro fischia ma il fischietto, pieno d’acqua, non funziona, il centravanti tira di collo pieno, l’arbitro fischia di nuovo ma il fischietto fa ancora cilecca, la palla si insacca nel sette, l’arbitro prova a fischiare con le dita ma si sbava nella mano e basta, il centravanti parte come un invasato verso la bandierina del corner, si toglie la maglia, si appoggia alla bandierina, accenna un passo di qualche stupida danza brasiliana e poi finisce incenerito da un fulmine che ha preso in pieno la suddetta bandierina.

Il prof. Taltomar prese tempo sfilandosi dalle labbra la sigaretta e scuotendo via una cenere immaginaria.

Il caso era, obbiettivamente, complesso.

Alla fine sputò per terra qualche briciola di tabacco e mormorò piano:

- Goal annullato per posizione irregolare. Centravanti ammonito per essersi tolto la maglia. Trasportate fuori dal campo le sue ceneri, la panchina può effettuare la necessaria sostituzione. Previa la sostituzione del fischietto arbitrale e l’installazione di una nuova bandierina del corner, si riprende il gioco con una punizione da battersi nel punto esatto dell’avvenuto fuorigioco. Nessuna sanzione per la squadra ospitante. Ci manca ancora che uno sia responsabile se il centravanti avversario ha una sfiga della madonna.

Silenzio.

Poi Gould disse

- Grazie, professore.

e se ne andò.

- Stai bene, figliolo -, mormorò il prof. Taltomar senza neanche girarsi.

La partita era inchiodata sullo zero a zero.

L’arbitro correva poco ma ci sapeva fare.

Faceva un freddo cane.

I bambini hanno bisogno di certezze.


O guardi o giochi

- Sei sicuro di non voler dire niente? 

- In che senso?

- C’è qualcosa che vorresti dire, prima che smettiamo? Qualsiasi cosa.

- Sì. Forse sì. Una cosa.

- Bene Gould. Dilla allora.

- Lei sa chi è il prof. Taltomar?

- È un tuo professore?

- Più o meno. Non sta a scuola, lui.

- No?

- Lui sta sempre sul bordo di un campo da pallone, proprio dietro la porta. Stiamo insieme, lì, noi due. E guardiamo, capisce?

- Sì.

- Be’, volevo dire che ogni tanto qualcuno tira, e la palla finisce fuori, oltre la porta, ci rotola anche vicino, alle volte, e poi si ferma, un po’ più in là. Allora il portiere, di solito, fa qualche passo fuori dal campo, ci vede e ci grida - Palla, per favore, la palla, grazie. E il prof. Taltomar non si muove mai, continua a guardare verso il campo, come se non fosse successo niente. Decine di volte, è successo, e noi quella palla non siamo mai andati a prenderla, capisce?

- Sì.

- Sa, io e il professore non è che parliamo tanto, guardiamo e basta, ma un giorno mi son deciso e gliel’ho chiesto. Gli ho chiesto: Perché non andiamo mai a prenderla, quella maledetta palla? Lui ha sputato per terra un po’ di tabacco e poi ha detto: O guardi o giochi. Non ha detto altro. O guardi o giochi.

- ...

- ...

- E poi?

- E poi basta.

- Era questo che volevi dire, Gould?

- Sì, era questo.

- Nient’altro?

- No.

- Va bene.


Il professore non ricomparve più al campo

Durante l’inverno del I989, la temperatura fu molto rigida, e il campionato di calcio, nel campo dietro alla casa di Gould, fu interrotto spesso per impraticabilità del terreno. Alle volte si rassegnavano a giocare in condizioni proibitive, giusto perché il calendario non andasse completamente a pallino. Capitò a Gould, Poomerang e Diesel di vederli giocare, un giorno, sulla neve. il pallone rimbalzava, e dunque per l’arbitro era tutto regolare. Una squadra aveva la maglia rossa. L’altra una divisa a scacchi viola e bianca. Qualcuno aveva i guanti, e uno dei due portieri si era messo un colbacco in testa, con i paraorecchi abbassati e legati sotto il mento. Sembrava un esploratore antartico ripescato sul pack da una nave crociera del Club Med. A metà del secondo tempo Gould uscì da casa e raggiunse il solito posto, dietro alla porta di destra. Il prof. Taltomar non c’era. Era la prima volta.

Gould aspettò un po’, poi se ne tornò a casa. Vinsero i rossi, con un goal di culo al dodicesimo del secondo tempo.

Il professore non ricomparve più, al campo, e così Gould si mise a cercarlo. Alla fine lo trovò in una casa di cura per anziani, con una polmonite che forse era un cancro, non si sapeva bene. Stava nel suo letto, ed era come rimpicciolito. Tra le labbra aveva una sigaretta senza filtro, spenta. Gould avvicinò la sedia al letto e si sedette. Il prof. Taltomar aveva gli occhi chiusi, forse stava dormendo. Per un po’ Gould rimase in silenzio. Poi disse:

- Zero a zero a due minuti dalla fine. Il centravanti si butta in area, l’arbitro fischia il rigore. Il capitano protesta mettendosi a strillare come un matto. L’arbitro si incazza, estrae una pistola e gli spara a bruciapelo. La pistola fa cilecca. Il capitano si butta sull’arbitro e i due finiscono a terra. Accorrono dei giocatori e li dividono. L’arbitro si rialza.

Il prof. Taltomar non si mosse. Per un po’, non si mosse. Poi si sfilò lentamente la sigaretta dalle labbra, scosse via un po’ di cenere immaginaria, e mormorò piano:

- Cartellino rosso per il capitano. Esecuzione del rigore. Portata a termine della partita fino allo scadere del tempo regolamentare più recupero relativo all’avvenuto tafferuglio. Radiazione dell’arbitro ai sensi della norma n. 28 dello Statuto associativo che così recita: i pirla non arbitrano.

Poi diede un colpo di tosse e si infilò la sigaretta tra le labbra.

Gould sentì qualcosa di bello, dentro.

Rimase ancora un po’ lì, in silenzio.

Quando si alzò disse:

- Grazie, professore.

Il prof. Taltomar non aprì nemmeno gli occhi.

- Stai bene, figliolo.

L’immobile film di un vecchio che se ne andava

(Gould va a trovare il prof Taltomar. Entra nell’ospedale. Sale al sesto piano. Entra nella camera n. 8. Taltomar è nel letto. Respira attraverso una maschera collegata a un macchinario. È magrissimo. Gli hanno tagliato i capelli. Gould avvicina una sedia al letto e si siede. Guarda Taltomar. Aspetta.) ...dore di minestra. E di piselli. Forse i piselli fanno bene ai malati, a qualunque malattia, pensò Gould. Forse l’odore di per sé è curativo, hanno fatto degli studi e hanno capito che. Muri gialli. Giallo roulotte. Ma un po’ più slavati. Slavati, non lavati. Chissà il cesso com’è.

Gould si alzò, e andò a toccare con un dito la mano grigia del prof. Taltomar. Come toccare la pelle di un animale preistorico. Liscia e vecchia. La macchina respirava con Taltomar, gli dava un ritmo costante, tranquillo. Non sembrava una lotta. Sembrava dopo una lotta. Gould tornò a sedersi. Si mise a respirare al ritmo della macchina. La macchina respira con Taltomar, Gould respira con la macchina, Gould respira con Taltomar. È come passeggiare insieme, professore.

Poi si alzò. Andò in corridoio. C’era qualche vestaglia che girava senza meta e infermiere che parlavano a voce alta. Il pavimento era fatto di piastrelle bianche e nere. Gould si mise a camminare. Teneva gli occhi sul pavimento e cercava di posare i piedi solo sulle piastrelle nere, senza toccare le righe. Gli venne in mente un film che aveva visto in cui c’era un pugile che si allenava correndo lungo i binari della ferrovia. Era inverno, e lui correva con un cappotto. Aveva anche le mani bendate rigide, come prima di infilare i guantoni per combattere, e ogni tanto tirava qualche colpo nell’aria

[...]

Gould si fermò. C’era una donna che piangeva, nella stanza n. 3, piangeva forte e ogni tanto urlava che se ne voleva andare, ce l’aveva con tutti perché non la lasciavano andare via. Fuori dalla porta c’era il marito. Parlava con un altro signore, un po’ grasso, e anziano. Stava dicendo che non sapeva più cosa fare, lei si era buttata giù dalle scale la notte di Natale, era successo tutto improvvisamente, da quando era tornata dalla clinica sembrava guarita, era abbastanza normale, poi la notte di Natale ha preso e si è buttata giù dalle scale, non so più cosa fare, non posso riportarla nella clinica psichiatrica, ha una gamba rotta in due punti e tre costole fuori posto, ma non ne posso più, sono qui da diciotto giorni, io non ne posso più. Lo diceva senza piangere, e senza muovere le mani, appoggiato al muro, con molta calma. Dalla camera veniva la voce della donna che gridava. Quando piangeva sembrava di sentire piangere una bambina. Una donna molto piccola. Gould riprese a camminare. Quando arrivò davanti alla stanza n. 8, entrò e tornò a sedersi sulla sedia accanto al letto del prof. Taltomar. La macchina continuava a respirare. Taltomar era nella stessa posizione di prima, la testa leggermente girata sul cuscino, le braccia fuori dalle coperte, le mani contratte. Gould se ne stette per un bel po’ a guardare l’immobile film di un vecchio che se ne andava. Poi si sporse verso il letto, senza alzarsi dalla sedia, e disse

- Quindicesimo del secondo tempo. Zero a zero. L’arbitro fischia e convoca i due capitani. Gli dice che è molto stanco, che non sa cosa gli è successo, ma è così stanco, e vuole tornare a casa. Vorrei tornare a casa, dice. Stringe la mano a tutt’e due, poi si volta e camminando lento attraversa il campo, verso gli spogliatoi, Il pubblico lo guarda in silenzio. I giocatori rimangono immobili. C’è il pallone, fermo in mezzo all’area, ma nessuno lo guarda. L’arbitro si infila il fischietto in tasca, mormora qualcosa che nessuno può sentire e sparisce nel tunnel.

Le mani di Taltomar non si mossero. Le palpebre tremavano appena, la macchina respirava. Gould rimase immobile, ad aspettare. Guardava le labbra di Taltomar. Senza la solita cicca spenta sembravano disabitate. Dal corridoio si sentiva la donna che piangeva con una voce da bambina. C’era tempo che passava, del tempo, che passava.

Quando si alzò, Gould rimise la sedia al suo posto. Prese il cappotto e lo tenne sul braccio perché faceva un caldo cane. Diede ancora un’occhiata alla macchina che respirava. Poi si fermò ai piedi del letto, solo un attimo.

- Grazie, professore -, disse.

Grazie, pensò.

Poi uscì. Scese i sei piani di scale, attraversò il grande salone di ingresso dove vendevano i giornali e i malati in pigiama telefonavano a casa. La porta per uscire era a vetri e si apriva da sola quando ti avvicinavi. Fuori c’era il sole. Poomerang e Diesel lo stavano aspettando appoggiati a un cassonetto della spazzatura.

Se ne andarono insieme, risalendo il viale alberato che portava verso il centro. Ballavano tutti e tre il passo sbilenco di Diesel, ma con arte, e un’eleganza da professionisti.

Solo dopo un po’, quando erano ormai arrivati all’incrocio con la Settima, Poomerang si passò una mano sul cranio rapato e nondisse:

- I due capitani si consultano, poi le due squadre ricominciano a giocare. E non smettono di farlo fino alla fine dell’eternità.

Gould aveva un vecchio chewingum attaccato sul fondo della tasca, nel cappotto. Lo andò a prendere, lo staccò dalla stoffa e poi se lo mise in bocca. Era freddo e un po’ duro, come un compagno di scuola delle elementari che non vedevi da anni e un giorno lo incontri per strada.


La scuola Renemport

Quella mattina finì vicino alla scuola Renemport, quella che aveva tutt'intorno una recinzione un po' arrugginita, alta che non la si poteva scavalcare. Dalle finestre si vedevano i ragazzi in classe, ma nel cortile ce n'era uno che non era in classe perché stava nel cortile e per la precisione giocava con un pallone da basket, precisamente nell'angolo del cortile dove c'era un canestro da basket. Il tabellone era tutto scorticato, ma c'era la retina quasi nuova, dovevano averla sostituita da poco. Il ragazzino avrà avuto dodici anni. Tredici, una cosa così. Era nero. Palleggiava, con calma, come se cercasse qualcosa dentro di sé, poi quando l'aveva trovata si fermava e tirava a canestro. Ci pigliava sempre. Si sentiva il rumore della retina, era una specie di respiro, o un minuscolo colpo di vento. Il ragazzino si avvicinava al canestro, recuperava la palla che stava fermandosi, come esausta per aver respirato quel microscopico vento, la riprendeva in mano e ricominciava a palleggiare. Non sembrava triste e nemmeno contento, palleggiava e tirava a canestro, semplicemente, come fosse scritto così, da secoli.

Io conosco tutto questo, pensò Gould.

Dapprima riconobbe il ritmo. Chiuse gli occhi per sentirlo meglio. Era quel ritmo.

Sto vedendo un pensiero, pensò Gould.

I pensieri quando pensano nella forma dell'interrogazione.

Rimbalzano deambulando per raccogliere intorno tutti i cocci della domanda, secondo un percorso che sembra casuale e fine a se stesso. Quando hanno ricomposto la domanda si fermano. Occhi al canestro. Silenzio. Stacco da terra, l'intuizione carica tutta la forza necessaria a ricucire la lontananza da una possibile risposta. Tiro. Fantasia e ragione. Nell'aria sfila la parabola logico-deduttiva di un pensiero che ruota su se stesso sotto l'effetto di una frustata di polso impressagli dall'immaginazione. Canestro. La pronuncia della risposta: come una specie di respiro. Pronunciarla è perderla. Scivola via ed è già cocci rimbalzanti della prossima domanda. Da capo.

Shatzy, la roulotte, un ospedale psichiatrico, le mani di Taltomar, la roulotte, Couverney sarebbe per noi un onore associarla alla cattedra di, o si guarda o si gioca, le lacrime del prof. Kilroy, quando Shatzy ride, quel campo di pallone, Couverney, Diesel e Poomerang, la ferrovia, vram, destro sinistro, mamma. Occhi al canestro. Stacco. Tiro.

Giocava, il bambino nero, ed era solitario, inevitabile e clandestino come i pensieri, quando sono veri e pensano nella forma dell'interrogazione.

Con alle spalle il luogo deputato del sapere, la scuola, blindata e separata, con produzione di domande e risposte secondo metodo guidato, nella cornice confortevole di una comunità intenta a smussare gli angoli taglienti delle domande, astutamente convertendo in cerimonia comunitaria quella che sarebbe iperbole isolata, e abbandonata.

Espulsi dal sapere, lottano i pensieri, pensò Gould.

(Fratello bambino, nel vuoto di un cortile vuoto, tu e le tue domande, insegnami quella calma e il gesto sicuro che trova la retina, quel respiro, all'altro capo di ogni paura.)

Camminò i passi del ritorno accostandoli al rimbalzo immaginario di un pallone ipotetico a cui dava movimento con la mano, spingendolo nel vuoto, sentendone i rintocchi sul selciato, caldi e regolari come battiti di cuore rimpallati via da una vita quieta.

Ciò che poteva vedere la gente, e vedeva, era un ragazzino che camminava giocando con uno io-io che di fatto non c'era. Così guardavano, rapiti da quella scheggia ritmata di assurdo, incastonata in un'adolescenza, per giunta, come ad annunciare in largo anticipo una pazzia. La gente teme la pazzia. Sfilava dunque, Gould, come una minaccia, pur non sapendolo senza saperlo, come un'aggressione.

Arrivò a casa.

C'era in giardino una roulotte. Gialla.

Il calcio al pallone

Fu tutto così improvviso e, in certo modo, naturale.

Quella mattina Gould se n'era ritornato giù alla Renemport, la scuola. Gli era venuto in mente che magari ci trovava di nuovo quel ragazzino nero con il suo pallone da basket, e tutto il resto: per essere precisi sentiva che era lì, si era svegliato con la certezza che fosse lì.

Ci mise un po', poi effettivamente arrivò davanti alla Renemport. Forse era l'intervallo, o chissà quale festa o ultimo giorno di qualcosa. Fatto sta che il cortile era pieno zeppo di bambini e bambine e tutti giocavano, facendo un rumore come di voliera, ma una voliera in cui qualcuno stesse sparando, proiettili invisibili silenziosi, con ferocia e pessima mira.

C'erano un sacco di palloni, di tutte le dimensioni, che rimbalzavano in giro e accendevano geometrie contro piedi, mani, cartelle e muri.

La scuola, dietro alla grande voliera, sembrava vuota.

Del ragazzino nero non c'era l'ombra. Ogni tanto qualcuno tirava a canestro. Ma non ci prendevano quasi mai.

Gould andò a sedersi su una panchina del viale, una decina di metri dalla recinzione della scuola. Dietro passava la strada strisciata di auto e camion in velocità. Davanti c'era un po' di prato e poi le maglie di ferro arrugginito, fino in alto, e infine il cortile pieno di bambini. Non c'era un ritmo, in tutto quello, né una regola, o un centro, cosicché risultava difficile pensare, lì, e in certo modo impossibile avere pensieri. Per questo Gould si tolse il giubbotto, lo appoggiò allo schienale della panchina, e si fermò, lì, a nonpensare.

C'era il sole alto, su tutto.

Il pallone scavalcò la recinzione di poco, due spanne, non di più. Ricadde sul prato, rimbalzò a pochi metri da Gould e rotolò verso la strada. Era un pallone bianco e nero, da calcio.

Gould stava nonpensando. Seguì istintivamente con gli occhi la parabola del pallone, lo vide rimbalzare sull'erba e poi sparire alle sue spalle, verso la strada. Riprese a nonpensare.

Allora una voce bucò tutto il gran casino e urlò

- Palla!

Era una bambina. Stava appoggiata alla recinzione con le dita

che artigliavano le maglie di ferro arrugginito.

- Ehi, me la tiri la palla?

Anni di lezioni con il prof. Taltomar avevano insegnato a Gould a non provare il minimo imbarazzo. Rimase a guardare davanti a sé, riprendendo a nonpensare.

- Allora, me la vuoi tirare 'sta palla, ehi, dico a te, sei sordo?

Andò avanti per un bel po', con la bambina che strillava e Gould che guardava davanti a sé.

Minuti.

Poi la bambina si stufò, si staccò dalla recinzione e tornò a giocare.

Gould la osservò mentre correva dietro a un'altra bambina, più alta di lei, e poi spariva da qualche parte nel grande animalone fatto di bambini e palloni e grida e felicità. Mise a fuoco la recinzione dove poco prima lei teneva le mani, e si immaginò la polvere di ruggine, sui suoi palmi, e nelle pieghe delle dita.

Allora si alzò. Si girò su se stesso e guardò finché vide il pallone bianco e nero dall'altra parte della strada, attaccato al bordo del marciapiedi, a rotolare con la polvere nell'aria risucchiata dalle auto in velocità.

Fu tutto così improvviso e, in certo modo, naturale.

L'autista del pullman vide il ragazzino da lontano, ma non pensò che potesse davvero attraversare la strada. Pensò che quanto meno si sarebbe girato, avrebbe visto il pullman e si sarebbe fermato. Invece il ragazzino entrò nella strada senza guardarsi attorno, come se fosse nel vialetto di casa sua. L'autista premette d'istinto il pedale del freno, stringendo il volante tra le mani, e tirandosi indietro, sul sedile. Il pullman iniziò a sbandare, con il posteriore che tirava verso il centro della carreggiata. Il ragazzino continuava a camminare, guardando qualcosa davanti a sé. L'autista mollò un po' il freno per riprendere il controllo del pullman, vide i pochi metri che mancavano e pensò che stava uccidendo un ragazzino. Sterzò con violenza verso destra. Sentì l'urlo della gente arrivargli dai sedili dietro di lui. Vide la fiancata del pullman sfilare a un metro, non più di un metro, dal ragazzino, e sentì sotto le mani l'attrito delle ruote che strisciavano contro il marciapiedi.

Gould arrivò dall'altra parte della strada, si chinò e raccolse il pallone. Si voltò, guardò se arrivava qualche macchina, poi riattraversò la strada. C'era un pullman fermo, un po' storto contro il marciapiedi: suonava il clacson come un pazzo. Gould pensò che salutasse qualcuno. Risalì sul prato e arrivò di fianco alla panchina. Guardò la recinzione, quanto era alta. Poi guardò il pallone. Sopra c'era scritto: Maracaná. Non aveva mai visto un pallone da tanto vicino. In realtà non l'aveva neanche mai toccato, un pallone.

Ridiede un'occhiata alla recinzione. Il gesto lo conosceva, l'aveva visto mille volte. Lo ripassò mentalmente, chiedendosi se mai sarebbe riuscito a trasmetterlo a tutte le parti del corpo che gli fossero servite. Gli sembrava una cosa improbabile. Ma era così evidentemente necessario, provarci. Ripassò tutto per bene, con ordine. La sequenza dei passaggi non era complicata.

C'era da inventarsi la velocità, quello sarebbe stato difficile, sincronizzare i tempi, e incastrare tutti i pezzi fino a farli diventare un unico gesto, senza interruzioni. Non bisognava fermarsi a metà, questo era chiaro. Doveva essere una cosa che cominciava e poi finiva, senza perdersi per strada. Come un ritornello di una canzone, pensò. I bambini, di là dalla rete, continuavano a strillare. Canta, Gould. Comunque vada a finire, è il momento di cantare.

L'autista del pullman aveva le gambe che gli tremavano, ma scese lo stesso e lasciando la portiera aperta andò verso quel ragazzino idiota. Stava fermo immobile, a guardare un pallone che teneva in mano. Doveva essere veramente idiota. Stava per gridargli qualcosa, quando lo vide finalmente muoversi: lo vide alzare il pallone nell'aria, con la mano sinistra, e poi colpirlo al volo con il piede destro, spedendolo nel cortile della scuola, oltre la recinzione. Ma guarda 'sto idiota, pensò.

La curva di cuoio bianco e nero a incontrare nell'aria la fonda di piede gamba caviglia, interno collo destro, impatto morbido perfetto che torna su lungo la carne fino al cervello - puro piacere - mentre il corpo rotea intorno alla muleta della gamba sinistra intenta a salvare l'equilibrio durante l'avvitamento per poi restituirlo alla gamba destra non appena essa ritocca terra, reduce dal gran volo con percussione, trattenendo il corpo dal rotolare in avanti mentre gli occhi istintivamente si alzano a guardare quel pallone che scavalca recinzioni e dubbi, rotolando nel cielo una traiettoria come d'arcobaleno in bianco e nero.

- Sì - disse piano Gould. Era una risposta a un sacco di domande.

L'autista del pullman arrivò a qualche metro dal ragazzino. Le gambe gli tremavano ancora un po'. Era incazzato, davvero.

- Allora, sei completamente pazzo o cosa?, ehi, tu, cos'è, sei pazzo?

- Il ragazzino si voltò a guardarlo,

- Non più, signore.

Disse.

Epilogo

Gould spense la luce dei bagni. Alzò lo sguardo all'orologio.

Tre minuti alle sette. Aprì l'armadietto, si tolse il camice bianco e lo appese alla gruccia di plastica. Prese dal tavolo il cartellino con sopra scritto Grazie e lo mise via, sul piano in alto. Poi guardò il vaso di vetro con le mance. Aveva messo a punto un suo sistema per prevedere il totale prima di contare i soldi: era un sistema che incrociava diverse variabili, comprese alcune tipo il tempo atmosferico, il giorno della settimana o la percentuale di bambini che avevano usato i gabinetti. Così si mise anche quella volta a calcolare e alla fine si fissò in mente una cifra. Poi svuotò il vaso di vetro sul tavolo e iniziò a contare. Di solito aveva una percentuale di errore che non superava il 18 per cento. Quel giorno andò molto vicino a beccare la cifra esatta. Sette per cento in più. Stava migliorando. Raccolse le monete e le mise in un sacchetto di nylon. Lo chiuse e lo ripose nella cartella. Diede un'occhiata in giro, che tutto fosse a posto. Poi prese il cappotto, dall'armadietto, e se lo infilò. Nell'armadietto c'erano un paio di stivali di gomma, un atlante geografico e un po' di altre cose. C'erano anche tre foto, appese allo sportello. Ce n'era una di Walt Disney e una di Eva Braun. Poi ce n'era una terza. Gould chiuse l'armadietto. Mise a posto la sedia, spingendola sotto il tavolo, prese la cartella, andò verso la porta, si voltò, diede ancora un'occhiata, poi spense la luce. Uscì, si chiuse la porta alle spalle e salì le scale. Il supermercato, sopra, stava chiudendo anche lui. Cassette semivuote, e commessi che spingevano treni di carrelli. Andò a posare le chiavi da Bart, nello stanzino della sorveglianza.

- Tutto bene, Gould?

- Da dio.

- Stai buono, eh?

- A domani.

Uscì dal supermercato. Era buio e tirava un vento gelido. Ma l'aria era pulita, di vetro pulito. Si tirò su il bavero del cappotto e attraversò la strada. Diesel e Poomerang lo stavano aspettando, appoggiati a un cassonetto della spazzatura.

- Com'era la merda?

- Abbondante.

- È la stagione, cagano che è un piacere, d'inverno, nondisse Poomerang.

- Avevano tutti e tre le mani sprofondate nelle tasche. Odiavano i guanti. Se ci pensi, di tutte le cose belle che puoi fare con le mani, non ce n'è una che puoi fare se ti sei messo i guanti.

- Andiamo?

- Andiamo.